Il “pungiglione” della morte




Tempo di Quaresima, tempo di meditazione sul senso della vita e sul senso della morte, sia pure in una prospettiva che guarda alla Resurrezione, ma senza eludere mai lo snodo tragico della passione e della sofferenza corporale e spirituale. È curioso che proprio in questo tempo forte dell’anno sia stata rappresentata al Teatro comunale di Monfalcone una pièce interamente centrata sulla morte, in chiave più ironica che tragica, con un sapore dolce amaro che tenta di esorcizzare con il sorriso la paura di questo inevitabile appuntamento dell’uomo con la propria fine. “Sulla morte senza esagerare” è uno spettacolo dedicato alla poetessa polacca Wislawa Szymborska, andato in scena martedì 27 febbraio all’interno della rassegna “AltroTeatro”. Attraverso una declinazione del tutto originale del teatro delle maschere allestito dalla compagnia il “Teatro dei Gordi”, la morte diventa il luogo di una serie di contrattempi, paradossi e improvvisi colpi di scena e inversioni di rotta, ambientati sulla linea cruciale di confine tra l’aldiquà e l’aldilà. La morte viene alleggerita e quasi derisa, interrogata perfino nella sua coscienza o incoscienza di sé e dei propri poteri sull’uomo, che a sua volta si aggira lungo i suoi confini ora desiderandola ora deplorandola, ma sempre sullo sfondo di un destino che sfugge ad ogni calcolo o desiderio.
Eppure la morte, nella visione di gran parte dell’umanità di ogni epoca e luogo, è sempre stata una spina nella carne, un pungiglione che ferisce i viventi nella loro costituzione più intima. La fantasia e la creatività umana hanno saputo anche deriderla, smitizzarla, vestirla di abiti grotteschi e di costumi da burla, ma senza mai riuscire a neutralizzare dalle radici le inquietudini e le angosce di cui da sempre è portatrice. L’arte, la letteratura, la poesia e la cultura di ogni civiltà si sono confrontate con la morte, ora in chiave mitica, ora poetica ora filosofica e religiosa nonché scientifica. Che cos’è la morte? E perché esiste? Per quale ragione l’essere umano, così complesso e mirabile nella sua costituzione fisica e spirituale, è segnato da questo fato di distruzione e annientamento? Quale è la ratio secondo la quale la mano che ci “crea” con infinito amore, bellezza e pazienza, è la stessa che, nell’atto stesso di costruirci come tante splendide cattedrali, impasta con i nobili materiali adoperati i germi della loro distruzione? Perché ci hai voluti e creati — chiede conto l’uomo nella sua vita via via che il tempo passa e il corpo si consuma e si indebolisce — se il nostro destino è quello di corromperci e di svanire? Le Scritture, specie i testi sapienziali, risuonano di questo grido primordiale, al quale nell’Antico Testamento ora risponde la voce pietosa, dolce e consolante di molti “Salmi” e del Libro della “Sapienza”, ora una voce impietosa, amara e disperante come in “Giobbe” e nel “Qoelet”. Con l’incarnazione del Verbo tutto cambia e la morte stessa diventa un passaggio da un’esistenza corruttibile e dolorosa ad una condizione di gloria e trasfigurazione che porta a beata pienezza la stessa carne travagliata dell’uomo.
Corpo e anima risorgeranno, rigenerati e sublimati da una vita e da una morte immerse nel mistero di Cristo. Non esiste altra via che possa togliere alla morte il suo “pungiglione”. Perché a sopravvivere per sempre e in uno stato di totale perfezione e gioia non sarà solo la parte spirituale di noi, ma tutta la nostra esistenza, fisica e reale, nella sua trama di fili più o meno visibili e vistosi, inclusi quelli appena abbozzati, nascosti e modesti nell’aspetto. Tutto, se buono, verrà ritrovato e innalzato, anche ciò che di buono abbiamo fatto senza saperlo, nel segreto e nell’umiltà di una misura minima e povera. In questo tempo di meditazione, preghiera e revisione delle nostre vite e delle nostre coscienze, è bene porre la morte al centro delle nostre riflessioni. Perfino un agnostico, tra i più pessimisti e disperati, quale fu Cioran ha riconosciuto che il peccato originale su cui la fede ebraica e la fede cristiana fondano la loro visione dell’uomo, della vita e della morte, è la sola spiegazione della nostra condizione di creature soggette al dolore, all’invecchiamento, alla malattia e alla morte. Possiamo aggiungere che solo la fede in Cristo spiega e risolve l’apparente contraddizione delle nostre esistenze, concepite secondo logiche meravigliose e grandi, eppure esposte alla miseria, alla caduta, al dolore e alla morte. In questo paradosso solo Cristo ci raggiunge e ci tocca, volgendo il pianto in gioia, la morte in vita e il provvisorio in eterno.

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