Il mare




Il mare è uno dei simboli ricorrenti del desiderio di avventura, di libertà ma anche di conoscenza dell’uomo. Metafora, di volta in volta, a seconda delle culture, del male e dei suoi abissi, ma anche della vita nelle sue molteplici iridescenze e nei suoi segreti fondali, il mare è stato cantato dai più grandi poeti e scrittori, a partire già dal padre della letteratura occidentale: Omero, che con l’ “Odissea” scrive il primo grande inno agli oceani come fonte di morte, dolore e smarrimento, ma anche di vita, rigenerazione e ritrovamento della propria identità.

Il mare determina anche lo spirito di una città e dei suoi abitanti. In quest’ottica è stato varato un ciclo di dieci conferenze centrate su “Trieste e il mare” (per informazioni sui futuri incontri visitare il sito www.triestemare.com), curato da Maurizio Eliseo e promosso dal Comune di Trieste e dall’Autorità Portuale insieme all’associazione culturale “Italian Liners” nell’ambito del progetto di recupero e valorizzazione del Porto Vecchio. Gli incontri, iniziati il 30 gennaio con Philippe Daverio, si svolgeranno fino a maggio presso l’Auditorium del Magazzino 26 del Porto Vecchio.

Sabato 13 febbraio, Pietro Spirito, scrittore e giornalista, ha presentato il letterato e docente universitario Renzo Stefano Crivelli, che ha approfondito il tema del rapporto tra la letteratura e il mare, soffermandosi su alcuni dei più celebri e ispirati cantori degli oceani — in senso fisico ma anche simbolico.

Tra gli scrittori presentati e le opere scelte, spiccano, oltre all’“Ulisse” di James Joyce (1882-1941), il “Lord Jim” di Joseph Conrad (1857-1924) e “Moby Dick” di Herman Melville (1819-1891). Vorrei soffermarmi a riflettere personalmente su questi scrittori da me molto amati, e non tanto sullo sfondo di un discorso più tecnico sul mare, ma esistenziale, filosofico e spirituale. Certamente il mare, sia pure in un senso traslato e amplificato, è lo sfondo dell’alter ego moderno e angosciato, disperso e disilluso, del mitico Ulisse: il Leopold Bloom dell “Ulisse” di James Joyce, scrittore dissacrante ed inquieto che al Mediterraneo limpido e assolato del re di Itaca nel suo viaggio di ritorno alle radici, contrappone il mare torbido, rumoroso e triste, della grande città ove Leopold Bloom, nuovo anti-eroe post-moderno, consuma il suo naufragio senza scopo e approdo.

Anche in questa opera visionaria e dissacrante il “mare” è presenza costante, sia pure come immagine del caos moderno e dell’inconscio deflagrato dei personaggi che lo solcano senza alcuna speranza di ritornare in patria dal momento che una patria, un luogo ove tornare, non esiste più.

In Conrad e Melville invece il mare è sia quello reale, ora infido e nemico, ora stupendo e maestoso, sia quello simbolico: in “Lord Jim” il mare è il luogo dello smarrimento, della colpa e del disonore, ma anche dell’avventura, della ricerca, del sogno romantico di compiere grandi coraggiose imprese. Ma come la vita, anche il mare spesso, se investito di ideali e di sogni eroici e mitici, sembra destinato a respingere sulle rive della sconfitta coloro che lo hanno amato e cercato, spesso anche sfidato, sia pure sempre con il sovrano timore dovuto a tutto ciò che nella natura è possente e indomabile.

Lord Jim, che nel mare cerca la grande prova del proprio valore e della propria forza, proprio nel mare trova invece lo specchio della parte più debole di sé e perfino della propria viltà, la peggiore viltà per chi si affida al mare con il sogno di dominarlo e di guidare incolumi altri uomini tra le sue imprevedibili tempeste: l’abbandono della nave da parte del suo capitano allorché si ha letteralmente l’acqua alla gola e tutto sembra perduto. E la colpa e il rimorso, che da allora bruciano nel profondo dell’anima, sono tanto più irrimediabili qualora proprio quella piccola nave riesce nonostante tutto a salvarsi, quasi non sopportasse la disonestà della menzogna e la viltà umana.

Si riscatterà “Lord Jim”, il protagonista di questo romanzo polifonico che nelle sue tante voci narranti riecheggia gli stessi innumerevoli suoni ed echi che vibrano sul mare e dal mare, si solleverà sopra la propria colpa, sia pure pagando un riscatto assai amaro e penoso, ma intensamente desiderato e che come un’onda spumosa di fresca acqua di mare libera la spiaggia da ogni relitto e traccia del naufragio.

Ma il romanzo della potenza invincibile del mare, del mistero spesso terribile delle sue profondità, rimane “Moby Dick” di Herman Melville, una vera epopea che canta l’irrinunciabile duello tra l’uomo all’eterna ricerca di un nemico da sconfiggere, di una colpa da punire o di un confine da violare, e le forze scatenate e libere della natura, simboleggiate magnificamente dalle distese dell’Oceano Atlantico nelle regioni più fredde del Nord America.

Il capitano Achab, una statua raggelata e deformata dall’odio più che una figura umana, porta dipinta in tutta la sua figura e in tutta la sua storia la violenza distruttiva del male umano che lotta con la violenza della natura scatenata nelle sue forze primordiali, simboleggiate dalla balena bianca, evocatrice di gorghi e di morte.

Nessuno scrittore più di Melville ha saputo proiettare sulla scena selvaggia dei grandi indomabili oceani l’eterna lotta tra l’uomo, che vuole dominare brutalmente la natura, e la natura stessa che a questo giogo brutale e ingiusto prima o poi si ribella con cieca furia. Il mare allora si fa simbolo dell’imponderabile mistero della vita, che è tanto più grande, misteriosa e profonda della nostra capacità di capirla e governarla. E la parabola tragica del capitano roso dal verme divoratore dell’odio e della vendetta, condannato alla distruzione e alla morte a causa del proprio delirio di onnipotenza che nella balena bianca vede la negazione del proprio presunto naturale diritto a dominare su tutto, diviene emblema della violenza connaturata alla storia umana.

Eppure, e noi gente di mare lo sappiamo bene, il mare è anche e soprattutto immagine di quiete e di bellezza, di pace e di splendore. Il “mare” è anche il mare del mistico che, anziché cercare vanamente di domarlo, si abbandona ad esso, al moto delle sue onde, lasciandosi modellare e rinfrancare. Ma l’uomo moderno sembra sordo a questa arrendevolezza e in ogni cosa, sempre di più, preferisce comportarsi come il re persiano Serse che si mise a frustare le onde del mare per far cessare una tempesta.

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