Il linguaggio degli affetti




Ogni madre e ogni padre, ogni fidanzato e fidanzata, ogni moglie e ogni marito coltivano nel loro privato un rapporto del tutto speciale ed esclusivo che si manifesta nell’uso di un gergo affettivo segreto. Possiamo dire che ogni relazione autentica e fondata su un forte e genuino sentimento ha un suo codice affettivo che per lo più viene tenuto nascosto ma che a volte trapela anche all’esterno, con effetti a volte un po’ ironici ed esilaranti.

Molti di noi ricorderanno il clima e il linguaggio che Natalia Ginzburg (1916-1991) è riuscita ad evocare nel suo indimenticabile libro “Lessico famigliare”. A cent’anni dalla sua morte e alla vigilia delle vacanze estive, vorrei lasciarvi una breve riflessione sul valore ed il significato di quegli spazi del tutto personali nonché universali in cui l’affetto si esprime e si mostra adoperando uno stile inconfondibile.

Nomignoli buffi e amorevoli, diminutivi comprensibili solo a chi li adopera e a chi ne è il destinatario, definizioni criptiche, spesso anche ironiche e onomatopeiche, per nominare cose o eventi noti solo a coloro che li hanno visti e sperimentati. In questi appellativi e in queste formule entrano, come in calchi ben solidi, le cascate di sentimenti, impressioni, emozioni comuni di persone legate da un affetto sincero e durevole. Se basta uno sguardo, un sospiro, un piccolo gesto, per rievocare un’intera storia, anche un sussurro, una sillaba, un enigma in parole, che agli esterni pare un rebus indecifrabile, hanno il potere di stringere in una comune percezione ed emozione due persone fortemente legate e di rinsaldarne ulteriormente l’intimità e la confidenza, preziosissime fonti che ogni giorno rigenerano il sentimento e l’affetto. La condivisione di questo mondo segreto è l’inattaccabile basamento di ogni vero legame affettivo. Quando si è stanchi, logorati e in preda alla noia — siamo pur sempre umani — basta un cenno o una lieve allusione a quel mondo comune per ritrovare il sorriso, la gioia e la serenità. Niente è più forte, leggero e potente di questo aureo regno del lessico famigliare. Quanti litigi, incomprensioni, dissensi e tensioni svaniscono quando una delle parti in causa ha la brillante ispirazione di richiamare qualche figura della retorica soave degli affetti. Essa rinnova in noi la consapevolezza di essere veramente uniti e complici e la certezza che là, in quell’isola di suoni che solo noi comprendiamo, nessun altro può entrare.

L’esistenza di queste piccole abitudini e parole che solo l’altro capisce senza spiegazioni è il segno di una tenerezza che anima tutto ciò che vive. Perfino la persona più scortese e intrattabile, cede al tocco di questa dolcezza spontanea, di questi suoni che richiamano il linguaggio della madre con il suo bambino e il sillabare morbido e trillante del bambino che le risponde.

Qualcosa in noi ci precede, un’ondata di tepore, un fremito sconosciuto, un incresparsi di tutto il nostro essere come un mare spumeggiante al tocco della brezza. Non possiamo spiegarlo, trattenerlo, inventarlo né disporne come vogliamo. E non è neanche un moto convulso del cuore né una passione che si fa strada dal profondo buio che è in noi. È qualcosa di diverso, chiamato con molti nomi, ma che in realtà non ha un nome. Più che una realtà precisa, un oggetto misurabile e conoscibile, questo fremito dell’essere che ci volge a coloro che veramente amiamo come il sole fa volgere ai suoi raggi i più timidi e ombrosi fiori, è come un grembo di luce e di tepore che accoglie tutte le cose. È un tessuto dorato che sostiene la creazione, il respiro dell’essere, il vento che soffia e tiene fresche e nuove tutte le cose. È lo Spirito, che non sai da dove viene né dove vada.

Se Dio è amore, questo amore, che ci trapassa come un raggio che a nostra volta riflettiamo intorno a noi, è davvero la radice di tutto. Chi può controllarlo, dominarlo o soggiogarlo, se è già per sua natura la più perfetta e armoniosa potenza che ci fa vivere? L’amore non è come la passione. La passione sì ha bisogno delle briglie della ragione per essere contenuta nel suo impeto divoratore e distruttivo. Ma l’amore, quell’amore che avvertiamo dentro prima ancora che ne conosciamo il nome e la natura, quello sbocco di tenerezza purissima e di afflato trepidante che forgia tra le nostre labbra i più sommessi, poetici o fanciulleschi e burloni “lessici famigliari”, questo moto che trascina di giorno in giorno i nostri fardelli sgravandoli del loro peso è il centro infuocato dell’universo.

E l’amore non ha bisogno di direttive e di leggi. È come un fiore che fiorisce solo su un terreno ben coltivato. È concluso in se stesso, gratuito e ineffabile, causa ed effetto ad un tempo del proprio essere ed esistere. Come il fuoco arde verso l’alto, l’acqua disseta e il cibo sazia, così è dell’amore che nasce in noi e con noi, amore perché amore e nulla di più. La sua essenza divina ne fa un dono già compiuto che aspetta solo di risvegliarsi e di sorgere, come un’alba fremente di rugiada.

Il linguaggio dell’amore e dell’affetto appartiene a qualcosa di più alto, o meglio, a qualcuno che non ha ma è quell’amore. Ogni dolce e affettuosa e buona frase del lessico famigliare è una nota della sinfonia, una sillaba trillante del lessico amoroso che è Dio, un Dio che scende a riposarsi nei nostri affetti e nelle loro parole rappacificanti, specchio di una famigliarità eterna e perfetta.

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