Il film “Cuori puri” tra banalità e critiche alla fede




Di “Cuori puri” la bella realtà di accompagnamento al matrimonio e all’amore, pensata soprattutto per i giovani, fondata da Ania Goledzinowska e discretamente seguita anche nelle terre della Mitteleuropa avevamo già parlato tempo addietro (http://www.vitanuovatrieste.it/ania-goledzinowska-e-i-cuori-puri/). Come avevamo detto, e qui ripetiamo, si tratta senz’altro di una delle iniziative più vivaci e meritorie degli ultimi decenni nel campo della pastorale giovanile e studentesca in genere. Ma, come spesso succede in questi casi, c’è gente che non riesce proprio a capire come siano possibili nel 2000 cose del genere e deve cercare in ogni modo di squalificarle, o denigrarle: pare proprio questo il caso del film omonimo di Roberto De Paolis in uscita nelle sale in questi giorni e (altro copione già visto) segnalato già dalla critica ‘mainstream’, come si dice in questi casi, cioè quella più asservita al politicamente corretto dei nostri tempi. La storia è presto detta: un ragazzo e una ragazza di una periferia di una metropoli s’incontrano in una realtà contrassegnata da estrema povertà e disagio sociale. Cattolica praticante in procinto di ufficializzare la promessa di castità lei, non credente e ribelle lui, i due – nonostante siano diversissimi –finiscono per attrarsi, piacersi e alla fine innamorarsi fino a cambiare sensibilmente le rispettive prospettive esistenziali, che nel caso di lei significa ovviamente la messa in discussione dei principi cristiani e il mutamento delle scelte di vita. Il tutto condito da una galleria di personaggi pure abbastanza scontata (se vi state chiedendo chi è il più antipatico non dovrete fare altro che cercarlo nella famiglia di lei, naturalmente, e, ancora più naturalmente, proprio nella figura che – simbolicamente – trasmette la fede, che qui appare come la solita serie di regole abbastanza astratte di cui nessuno dei credenti coglie il vero significato). Perché allora parlarne? Direte voi. Beh, per vari motivi: il primo è che un film che sceglie per titolo, oltre a citarla espressamente nella trama, un’associazione cattolica non può certo passare inosservato. Se qualcuno facesse un film con il cognome della vostra famiglia nel titolo, per esempio, giocando con le vostre storie per comunicare sul grande schermo una sua semplice idea personale voi che cosa direste? Fareste spallucce dicendo che la libertà d’espressione è sacra? La prima questione è insomma, banalmente, se si vuole, una questione di opportunità. O, citando una massima celebre, di non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Poi c’è la questione dei contenuti. La pellicola offre vari messaggi ma tra questi il più chiaro sembra essere – come dichiarato dal regista stesso – quello di vedere proprio la scelta della verginità prematrimoniale come una barriera verso l’altro (?), un ostacolo alla realizzazione della persona (?), persino una patologia degna di essere ‘attenzionata’ (!). Anche questo è un copione già visto, intendiamoci, quello cioè del cristiano coerente trattato come un poveraccio, uno scemotto che non si gode la vita, o entrambe le cose insieme, solo che qui si vorrebbe argomentarla cinematograficamente questa tesi in modo che lo spettatore che esce dalla sala dica, e si dica: ‘meno male che io non sono mai passato per esperienze religiose del genere’. La via, e la vita evangelica, insomma, come una via infelice, triste, persino irragionevole.
Poi, al fondo, c’è però anche e soprattutto una considerazione generale di scelta morale e culturale verso chi ha ideato, scritto e diretto il film: in un mondo ormai dominato dal pansessualismo in cui dalle pubblicità dei frigoriferi a quelle dei detersivi la sessualità di ogni tipo è rovesciata in faccia continuamente su ogni video e a ogni angolo della strada sul povero passante distratto, in cui la pornografia è oramai diventata di massa e le dipendenze sessuali cominciano a diffondersi seriamente persino tra giovani e giovanissimi un altrettanto giovane regista dei giorni nostri che fa? Ha la bella idea non di cercare di elaborare una qualche minima critica a tutto questo uragano continuato no-limits di sesso a pioggia in tutte le salse ma di ideare una pellicola per mettere in discussione chi fa sul serio nella vita reale – tra difficoltà enormi, sia chiaro, proprio perché il contesto è tutto quanto avverso, per usare un eufemismo – la scelta opposta. Complimenti per la prospettiva di campo assolutamente controcorrente, verrebbe da dire, e come no, proprio controcorrente. Eppure, se solo si fosse alzata un po’ la testa con un po’ di umiltà si poteva vedere che in giro sul rapporto tra amore e fede il cinema meno pubblicizzato (europeo e nordamericano, recente e meno recente) ha invece dato prova di vere e proprie ‘piccole’ perle da valorizzare, quelle sì realmente alternative all’andazzo generale del così fan tutti: da La bottega dell’orefice, a I passi dell’amore a Fireproof, gli esempi di film che hanno messo a tema il bell’amore con intelligenza e creatività riuscendo a parlare a un pubblico realmente eterogeneo non mancavano di certo. Allora, però, forse si sarebbero dovute mettere in discussione un bel po’ di idee personali e questo, beh, sarebbe stato probabilmente troppo per gli esecutori allineati del politicamente corretto in salsa cinematografica.

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