Il Cristo di San Juan de la Cruz




Al 2° piano del Seminario vescovile di via Besenghi, appena si esce dall’ascensore e si imbocca il corridoio che conduce ad una nuova sezione della Biblioteca riservata al Fondo di recente acquisizione “De Polo Saibanti”, lo sguardo viene immediatamente rapito, non senza un intimo soprassalto, da una copia del celebre quadro del pittore spagnolo Salvador Dalí (1904-1989): “Il Cristo di San Juan de la Cruz” (1951). Il carattere straordinario del dipinto, di cui parleremo riferendoci logicamente all’originale, apre sotto i nostri occhi uno scenario perturbante e affascinante, immobile e insieme vivissimo, silenzioso eppure eloquente, misterioso e al contempo illuminante. Luce e tenebra vi si intrecciano e confondono, scrivendo sulla tela la vertigine metafisica di vita e morte, di dolore e gioia, di effimero ed eterno che combattono nella notte un cosmico e tragico duello. Sappiamo che vinceranno la vita, la gioia e l’eternità, eppure le ali di tenebra che si distendono intorno alla croce e intorno alla stessa figura del Cristo, ritratto in una prospettiva del tutto inedita, al primo sguardo inquietano e turbano il cuore.

Salvador Dalí è un artista che non ha bisogno di presentazioni. Solitamente viene affiliato al movimento surrealista che in realtà fu per lui solo una delle innumerevoli esperienze e avventure artistiche e intellettuali vissute nel corso di un ‘esistenza provocatoria e dissacrante, sempre nel segno di un’“esagerazione consapevole” e divertita. Anche se la maggior parte dei suoi quadri sono capolavori maturati dai fermenti metafisici, onirici e visionari del surrealismo, Dalí ammiccò senza pudori al mondo nascente della cultura di massa, degli oggetti in serie, del narcisismo esasperato, della pubblicità senza limiti e regole e del successo perseguito con ogni mezzo e a tutti i costi, sfoggiando  un’assoluta e ben studiata noncuranza verso la risentita disapprovazione e gli indignati giudizi di alcune fasce del suo pubblico e della critica. Per questa ragione accanto ai suoi capolavori troviamo opere che nulla hanno di artistico se non la firma di Dalí stesso: video personali nel segno del paradosso e del grottesco, gioielli dall’impronta esoterica e immaginifica, oggetti come il telefono-aragosta o il divano rosso fuoco denominato per la sua forma “Le labbra di Mae West”, realizzato quest’ultimo su commissione di uno dei suoi mecenati più affezionati, il collezionista e miliardario inglese Edward James. La critica più severa e circostanziata, come abbiamo già osservato, non è stata molto indulgente nei confronti di questi sconfinamenti dell’artista dalla vera arte alla produzione meccanica di oggetti. Oggetti feticcio concepiti solo per scandalizzare i benpensanti e accarezzare le brame di rivolta e di anticonformismo di quella borghesia ricca e annoiata ritratta crudelmente dal regista spagnolo ma naturalizzato messicano Luis Buñuel (1900-1983), suo grande amico e sodale. Per questa ragione, Dalí fu etichettato dalla critica a lui ostile come uno showman del surrealismo, senza per questo essere privato della più che meritata fama di artista geniale e ineguagliabile.

Tra le opere che lo hanno reso degno di questa considerazione, si staglia maestoso il dipinto “Il Cristo di san Juan de la Cruz” nato dall’incrocio di un sogno “cosmico” — da distinguere rispetto ai sogni confusi, e scioccamente insensati fino al ridicolo, che affiorano dalle parti più superficiali dell’Io —, e di un incontro con la figura di Cristo crocifisso disegnata dal mistico spagnolo San Juan de la Cruz (1542-1591). Una visione dunque, sgorgata dal profondo, con una sua verità implicita offerta all’artista come un dono, in uno di quei rari momenti durante il sonno in cui vengono a visitarci figure di altri mondi.

Anche la tecnica scelta è frutto di questa origine metafisica: il Cristo è visto dall’alto, iscritto in un ideale triangolo che imprime al suo corpo crocifisso una perfetta compostezza e insieme un supremo abbandono. La compiuta geometria delle linee e dei piani non deriva da un puro calcolo orientato all’ordine formale, ma dall’esigenza interiore di esprimere la spirituale e superiore armonia del Figlio dell’Uomo anche nello spasmo dell’agonia. È un segno di perfezione e di equilibrio che allenta la gravità del corpo inchiodato e della croce che lo sostiene. Più che infissa nella terra, la croce fluttua quasi sospesa nell’aria, in una leggerezza come di vento che sospinga la vela di un vascello celeste. La sua figura si protende verso l’Aperto, l’Oltre e insieme verso il mondo, quasi sposandoli in sé, con il sigillo del patimento salvifico preludio di un nuovo Giorno. L’ombra delle braccia sulla traversa della croce dilata ulteriormente l’apertura del Cristo verso l’esterno, i colori caldi ed espansi delle sue membra giovani e ben modellate, tutti giocati tra penombre e velature, infondono alla sua carne una brillantezza aurea e ramata simbolo di perfezione e bellezza. Ed è così leggera e delicata la piega del capo reclinato verso il basso, in modo che il volto rimanga nascosto, così armonica la simmetria tra le membra, che la stessa sofferenza patita è come fatta rientrare in una serena offerta di sé, in un’attesa colma di pace e dolcezza. È un Cristo che si sporge verso di noi, quello dipinto da Dalí, e che al contempo si sporge sul mondo e sul cosmo intero, ora contenitore ora contenuto di tutte le cose create alle quali il Figlio di Dio guarda silenzioso dall’alto del suo sacrificio. La notte nera da cui emergono come fregi d’oro la croce e il crocifisso evoca il peccato del mondo che il Risorto dissiperà per sempre.

Dall’estremità inferiore della croce scende una pallida luminescenza che via via si espande in strati di luce ancora velata e quasi bronzea ma già più brillante e più densa, fino alla striscia di azzurro turchese di un lembo di cielo soprastante le morbide linee delle colline sullo sfondo. In primo piano si staglia ondulata la riva di un lago ombroso con tre piccole figure umane e due esili barche, forse simbolo della fragilità creaturale innanzi alle acque profonde e misteriose della vita. O anche richiamo ai pescatori di uomini che dalla Resurrezione del crocifisso, dopo la caduta nell’incredulità e nello sconforto dei giorni della Passione, correranno per le vie del mondo ricolmi di Spirito Santo e di inestinguibile fervore.

È su quel lago, su quelle rive, su quelle fragili barchette immobili e su quegli uomini così piccoli, assorti e ancora compresi in se stessi, che il Cristo stende la sua ombra. I colori e le luci del suo corpo e della sua croce si rispecchiano nella fascia di luce sottostante che segna il confine tra il nero buio in alto e l’azzurro del cielo, striscia sottile di speranza e di attesa dell’alba. Lo stupore metafisico che aleggia sulla spiaggia e sugli uomini, la calma immota dell’attesa di qualcuno o di qualcosa che cambierà l’ordine di tutte le cose in un modo ancora sconosciuto, tutto questo insieme accolto e abbracciato dall’uomo in croce, evoca un’arcana quiete in cui tutto trascorre in silenzio ed è sul punto di dischiudersi ad un sole nuovo, dopo un lungo inverno di gelo e di sonno. Il mondo intero sembra sospeso in un immenso timoroso stupore, come se il tempo si fosse fermato e le cortine del cielo stessero per aprirsi su un evento straordinario e ignoto.

La grande speranza della Resurrezione intride l’intero dipinto che già nel dolore della croce coglie il fremito della mattina di Pasqua appena accennata dalle strisce di luce all’orizzonte. Il crocifisso di Dalí è insieme al confine della morte e già oltre la morte, ancora uomo sofferente e insieme Dio che risorge. Tutto nel dipinto è aperto al germe della luce, il dolore è trasfigurato in una cosmica immobilità che racchiude il seme dell’albero della Vita che fiorirà al terzo giorno. E il legno su cui è appeso il Figlio dell’uomo, Dio che muore per amore, si fa vincastro che sostiene nella valle oscura e bastone sacerdotale che chiama tutti e tutto a sé per ricreare il cosmo. La Pasqua, nel capolavoro di Dalí, è già presente nel Venerdì di Passione, in quelle braccia aperte e in quell’inchino arrendevole del Cristo che così si congeda dal mondo pur rimanendo nel mondo con noi, ogni giorno: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12, 32).

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