Il bersaglio mobile di Gianni Togni




“E guardo il mondo da un oblò, mi annoio un po’”

Uno dei maggiori successi di Gianni Togni è stato il brano “Luna” del 1980, tratto da un LP dal titolo significativo ma prolisso: “…e in quel momento, entrando in un teatro vuoto, un pomeriggio vestito di bianco, mi tolgo la giacca, accendo la luce e nel palco mi invento…”. Questo insolito e curioso titolo, riportato in modo completo, compresi i tre puntini iniziali e finali, potrebbe condensare la filosofia di vita del cantautore romano, la continua ricerca di un bersaglio che, nel romanzo della quotidianità, diventa sempre più mobile, più sfocato, più incerto. Sembrerebbe quasi l’inizio di un romanzo scritto ma è piuttosto la descrizione di un affacciarsi immacolato (vestito di bianco) sul proscenio della vita, nella disillusione (entrando in un teatro vuoto) che la propria fantasia e originalità (nel palco mi invento) possa servire a qualcosa e a qualcuno. Non a caso “Bersaglio mobile” sarà il titolo di un LP successivo. Che cos’è la luna in questo quadro esistenziale, colmo di silenzi e di malinconia, come espresso nel brano omonimo? “Luna” è qualcosa di inafferrabile ma, nello stesso tempo, ineludibile: “Luna ti ho visto dappertutto, anche in fondo al mare, Luna non mostri solamente la tua parte migliore, stai benissimo da sola, sai cos’è l’amore e credi solo nelle stelle…”. Il riferimento alla luna di Togni, anche se antropomorfo, contrasta con l’amore cristiano del Dio che si è fatto Uomo, del Dio che è essenzialmente relazione d’amore nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Non ci può essere vero amore nella solitudine (nell’Ecclesiaste sta scritto il monito divino: “Vae soli”), nel credere solo alle stelle, in un miraggio posto in cielo vuoto e desolante: “Se sono triste mi travesto da Pierrot, poi salgo sopra i tetti e grido al vento, guarda che anch’io ho fatto a pugni con Dio”. Questo grido disperato che Togni rivolge al cielo, in quel “Luna” ripetuto più volte nella canzone, come un cane che abbaia, riassume l’essenza del cinismo (non dimentichiamo che il termine “cinico” deriva appunto da “canino”, simile al cane). Esattamente da questa corrente filosofica dell’antichità greca, il cinismo, nella quale si sosteneva la necessità di vivere seconda natura, vagabondando come cani randagi, sta l’immaginario poetico di Gianni Togni: “Passo le notti a camminare dentro un metrò (…) parlo da solo e mi confido che in fondo si sta bene così”. Le canzoni di Togni sono come delle belle foglie portate dal vento in giro per il mondo, spinte su e giù dalla forza della natura, a contatto con il cielo e precipitate sulla nuda terra, come esemplificato dal brano “Segui il tuo cuore” del 1985: “Viaggiamo insieme come foglie ed il vento sarà che ci solleverà come due altissime montagne, toccheremo, se vuoi, il cielo su di noi. Segui il tuo cuore, capirai cosa vuole e lasciati andare, capirai cosa fare…”. Quando nel 1981 incise il suo terzo album: “Le mie strade”, Gianni Togni ebbe un’esplosione di consensi del pubblico che lo portarono ad esibirsi facendo 120 concerti sold out. In uno dei pezzi più famosi di quell’album (“Semplice”) descriveva ancora una volta la sua visione cinica del mondo anche se apparentemente travestita di sentimentalismo vago e onirico: “Come stare fuori dal tempo quando fuori è mattina presto; cammino con un’aria da fortuna (…) conto i passi pensando a niente, la notte è ancora attaccata ai muri, va in mille pezzi e tu la sfiori (…). C’è sempre un sogno da raggiungere, amore, forza che è possibile andare avanti anche se fa freddo (…). Svegliati con un’idea che vuoi difendere, con un ricordo da dividere insieme, anche se ogni giorno è un’avventura che a pensarci fa paura (…) se è una commedia, allora avanti un’altra scena, per noi non c’è problema”. Cantando si impara con Gianni Togni a preservare l’amore umano tra un uomo e una donna come nella bella canzone “Per noi innamorati” del 1983: “Chissà cos’è l’infinità, cos’è che manca a questa notte bianca, a questa vita che cerchi (…). Per noi innamorati così la notte dura un po’ di più e il giro di una città è un viaggio da qui all’eternità”. Cantando si dovrebbe imparare però a non divinizzare l’amore umano, come invece fa all’opposto Gianni Togni nella celeberrima “Giulia” del 1984: “Giulia oh mia cara, ti prego salvami tu, tu che sei l’unica, non lasciarmi solo in questa notte gelida. Per favore, non vedi dentro i miei occhi la tristezza che mi fulmina. Non scherzare, sto in mare aperto e mi perdo e tu sei la mia àncora (…) tu che sei il mio angelo non lasciarmi in mano agli avvoltoi (…)”. Togni esprime così nel suo universo musicale l’amarezza della vita, il desiderio di libertà e di amore in un quadro pessimistico e precario, dove l’assenza di Dio è riempita dalla vita giocata solamente su un piano orizzontale: “Ho soltanto un cuore e te lo do, ho una vita sola, prendila, buttala via in un fosso o dove vuoi (…)”.

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