Visti i recenti fatti parigini, negli ultimi giorni un po’ ovunque sui mass-media si fa un gran parlare di Europa e Islam, della loro rispettiva identità, dei loro valori, dei loro orizzonti culturali e così via. Se ne sentono di tutti i colori, non c’è che dire, da un estremo all’altro, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Qui però volevamo soffermarci su un fenomeno relativamente inedito – soprattutto sul versante del Danubio – che conosce ultimamente diverse versioni e che potrebbe sintetizzarsi così: il tentativo di elaborare coscientemente di una storia multiculturale europea volta a dimostrare (sottolineiamo dimostrare) l’esistenza di ‘radici’ islamiche dell’identità del Vecchio Continente. Non è uno scherzo. Sempre di più nelle librerie delle grandi metropoli come sulle pagine culturali dei quotidiani più seguiti è possibile vedere il tal studioso – magari con titoli accademici, in modo da auto-attribuirgli ipso facto già una patente indiscussa di scientificità – esibirsi in raffinate e dotte interviste in cui si sostiene proprio questo: quella che chiamiamo da secoli Europa in realtà sarebbe un insieme variegato di meticciati culturali e spirituali dal passato ‘fluido’ (termine di gran successo popolare, di questi tempi) in cui non è possibile arrivare a determinazioni e primogeniture certe. L’Europa avrebbe infatti ospitato i popoli più diversi dalle origini più remote e da ognuno avrebbe ricevuto il suo particolare – e peculiare – influsso. Relativamente all’Islam solitamente si fa riferimento a temi come l’influenza di Averroè sulla filosofia medioevale, alla diffusione degli studi dei matematici arabi, alla dominazione mora della Spagna. Cose quindi tutto sommato note e arcinote e anche piuttosto inflazionate nella loro versione politicamente corretta (non si dice mai ad esempio come erano arrivati e che cosa ci facevano mai i mori nella penisola iberica). Solo che stavolta vi si aggiunge anche una nuova pagina: quella mitteleuropea appunto. E allora vai con le paginate sullo scrittore di tendenza emigrato che avrebbe avuto nonni perfettamente integrati a Praga o a Vienna già più di un secolo fa, e vai con il giornalista bosniaco che discende da un antica famiglia dell’impero ottomano e vai ancora più indietro con il filosofo di grido che si chiede pensosamente che cosa sarebbe stata dell’architettura balcanica senza il contributo di Istanbul (già Costantinopoli) come se da ciò dipendessero improvvisamente le sorti dell’umanità. Ora, in una situazione normale, diciamo solo qualche decennio fa, prima del Sessantotto, dell’Ottantanove e della globalizzazione degli anni Novanta e Duemila, tutto questo sarebbe suonato quantomeno bizzarro, se non proprio del tutto assurdo, e forse derubricato in quattro e quattr’otto come un passatempo per gente radical chic che non ha niente da fare dalla mattina alla sera e quindi non sa proprio come passare il tempo. Per questo fa a gara a chi le spara più grosse. E invece no. Ora tutto ciò viene rivestito di una nuova ammiccante patina intellettuale per cui fa una certa tendenza e anche proseliti. Ovviamente, non c’è bisogno di dirlo, i recenti fatti parigini hanno avuto l’effetto di ampliare ancora di più il fenomeno con l’intento di spiegare – appunto – che il Continente vanta una storia di integrazione islamica molto consolidata e (anzi!) saremmo noi – gli europei, e qui i mitteleuropei – che dovremmo imparare da loro, come abbiamo fatto in passato. Ma quale passato? Quando? Dove?
Storicamente è semmai vero l’esatto contrario cioè che la prima affermazione del nome ‘europei’ è accertata proprio relativamente a un episodio di conflitto contro le popolazione islamiche, ovvero la celebre battaglia di Poitiers (732) tra i franchi di Carlo Martello e gli Omayyadi di ʿAbd al-Raḥmān ibn ʿAbd Allāh al-Ghāfiqī. Pare proprio che fu lì, per la prima volta, che le cronache degli osservatori parlarono dell’esistenza di popoli ‘europei’, che erano cosa altra e diversa da quegli avversari che venivano da Oriente. Un dettaglio non solo filologico perché il confronto – culturale e armato – trai due mondi, come noto, andrà avanti da allora in poi per secoli e secoli fino ad arrivare praticamente ai giorni nostri. E’ chiaro, certo, che un conto è la storia e un conto è il presente e che quello che è accaduto in passato (da ambo le parti) non deve comunque inficiare in nessun modo il necessario dialogo interculturale (e interreligioso) di oggi. Tuttavia è pure vero che, nello specifico, l’identità culturale europea (e mitteleuropea) è stata già abbondantemente messa a fuoco da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI per restare ai giorni nostri. Di questa identità costituiscono parte fondante e preliminare tre luoghi simbolici: Atene, Roma e Gerusalemme. Ovvero, detto in altri termini più pregnanti: la filosofia greca, il diritto romano, la rivelazione cristiana. Sono questi i tre capisaldi imprescindibili di quello che poi è passato alla storia come patrimonio umanistico e culturale europeo. Si tratta di un dato ovvio e persino banale che fino al Settecento nessuno tra gli studiosi avrebbe messo seriamente in discussione. Per cui il resto, detto con il massimo rispetto per tutti e ciascuno, almeno a livello di diffusa influenza continentale, non assume certo la stessa rilevanza storica. Altrimenti dovremmo ammettere che anche con la Cina (con cui pure in secolo passati c’è stato un fruttuoso dialogo reciproco), per dirne una, abbiamo contratto un debito. Ma dal punto di vista storico sarebbe chiaramente un’asserzione fantascientifica e nessuno (per ora, forse) pubblicherebbe mai un saggio su “Le radici cinesi dell’Europa”. Magari un domani, vista la crescente immigrazione dal continente asiatico e la pressione economica, qualcosa cambierà anche lì, chissà. Ma l’Europa che abbiamo conosciuto per duemila anni è stata un’altra cosa. Chiunque sia onesto intellettualmente guardando alla storia continentale nel suo complesso non fatica ad ammettere che le cose stanno così. Come ha detto qualcuno, anche i più furiosi iconoclasti illuministi sono stati tali sempre e comunque rispetto ai dogmi cristiani, non ad altro. Questo significa allora forse negare – che so – l’epopea di Marco Polo o Matteo Ricci in Estremo Oriente – e tutto quello che ne è seguito – nell’arricchimento reciproco Asia-Europa? Ovviamente no. Solo che se sulle bandiere nazionali degli Stati europei il simbolo più ricorrente resta la Croce (dalla Danimarca protestante alla Grecia ortodossa alla Svizzera cattolico-calvinista) un motivo alla fine ci sarà. Se poi a uno questo proprio non piace dovrebbe prendersela con i rispettivi popoli e la loro storia anziché inventare improbabili commistioni ideali. Giusto per rispetto alla realtà, non per altro.
Lascia un commento