Gli angeli di Rilke




Da qualche tempo circolano voci allarmanti sul futuro del sentiero Rilke. I principi di Torre e Tasso lo venderanno a dei privati e così il sentiero non sarà più accessibile a tutti, oppure gli enti di competenza si metteranno d’accordo e daranno il loro sostegno affinché il sentiero resti aperto a tutti?

Ai triestini questo sentiero è molto caro, sia come espressione della bellezza tipica del nostro paesaggio sia come luogo di ispirazione legato al ricordo del poeta boemo Rainer Maria Rilke. Nel gennaio del 1912 Rainer Maria Rilke (1875-1926) si trova al castello di Duino, ospite della principessa Thurn und Taxis. Come racconta quest’ultima nelle sue memorie, l’artista, non ancora giunto alla pienezza della sua vocazione lirica, ricerca con ardente passione la propria missione estetica ed umana. Mentre passeggia lungo il sentiero che, per la frequenza delle ispirate passeggiate del poeta, verrà in seguito chiamato con il suo nome, Rilke avverte un fragore, come d’uragano che avanzi e nel fragore, simile a impetuoso vento, una voce possente in cui riconosce il sigillo terribile degli angeli :«Chi, se io gridassi, mi udirebbe poi dagli ordini degli / angeli?». Inizia così la straordinaria esperienza delle “Elegie duinesi”, dieci composizioni scritte in un lungo arco di tempo che va dal 1912 al 1922, anno in cui nel castello di Muzot il poeta conclude la decima e ultima elegia.

Dal sentiero quotidianamente percorso il poeta sente levarsi e confondersi le voci del mare, del vento e del bosco, frammiste ad un’eco che viene da spazi remoti e ed effonde sulla terra il richiamo degli angeli. Tra il mondo moderno, sfigurato dalla tecnica e intristito dalla mortalità di tutti gli esseri, e le sfere inaccessibili del cielo, l’angelo è creatura di confine, figura che allude all’eterno e al divino e nel contempo, con la sua “terribile” grandezza e magnificenza, schiaccia l’uomo incapace di afferrare l’ala angelica per tuffarsi nell’ignoto.

L’angelo abita le altezze e le profondità abissali dell’essere, nell’interiorità del cuore umano e nella vastità infinita del cosmo intero. Bellezza e magnificenza lo avvolgono in uno splendore regale che viene irradiato e poi assorbito di nuovo, poiché questi «micidiali uccelli dell’anima» possiedono una vitalità che, per quanto continuamente effusa, viene al contempo sempre ripresa, così da non diminuire mai. Inesauribile è infatti la loro inebriante grandezza. Ma ben diversamente vive l’uomo, la cui esistenza si consuma: noi infatti «ci alitiamo fuori» e, simili a legna posta sul fuoco, repentini ardiamo spandendo un profumo «sempre più debole». In questo incontro inebriante e insieme terribile, l’uomo naufrago e vagabondo delle “Elegie” assapora la vertigine della trascendenza. Questo slancio verso l’alto, che l’angelo rilkiano apre tra il visibile e l’invisibile, è la parte più nobile ed alta dell’uomo, pur assediato nella sua carne mortale dalla precarietà e dalla debolezza proprie a tutte le creature impastate di terra. L’angelo lo chiama, lo scompiglia, lo avvolge di suoni antichissimi e oscuramente profetici. È la voce arcana dell’essere, delle sue profondità, dei suoi misteri, delle sue estasi, delle sue notti silenti e dei suoi pericoli. L’uomo ne è attratto ma anche riscattato, perché sentendosi capace di accogliere questa voce si scopre anche capace di eternità e infinito.

Anche se vagabondi, privi di patria, sbattuti dalle tempeste della vita come povere marionette e labili come fiori in autunno, gli uomini che attraversano le “Elegie duinesi” possiedono in dono un’anima che è come una coppa in cui l’universo intero riversa lo spirito e la bellezza di tutte le sue forme. Il cuore è la misura penultima del loro esistere. L’ultima appartiene all’insondabile. Oltre, dove al di là dei «campi fiorenti della malinconia» qualcosa di immenso e mirabile guarda verso di noi.

 

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