Giacomo Leopardi al San Marco




Quando si parla di Giacomo Leopardi (1798, Recanati – 1837, Napoli), le prime impressioni quasi impulsive che proviamo non sono certo delle più solari e piacevoli. Se dovessimo tradurre queste impressioni in immagini potremmo figurarci un deserto infinito sovrastato da un cielo lontano e indifferente o una ginestra selvaggiamente e disperatamente attaccata nella sua coraggiosa solitudine a un suolo roccioso e infecondo. Pessimismo, fragilità, abbandono, mancanza di senso, vuoto, tedio e solitudine: per molti queste sono le parole chiave della visione leopardiana del mondo, dell’uomo e dell’universo. Un’occasione per ritrovare e interrogare il pensiero e l’opera di questo poeta eccezionale è stata offerta da un incontro al Caffè San Marco dove di recente i poeti Enzo Santese e Gabriella Valera hanno letto e analizzato alcuni passi tratti dalle “Operette morali” e dallo “Zibaldone”.

Leopardi cantore del vuoto e del dolore, alfiere della ribellione umana alle leggi impietose della natura e della materia. Una ribellione che è il solo dono a disposizione dell’infelice uomo pellegrino di un tempo e di uno spazio senza più punti cardinali, un uomo che nasce, vive con dolore e muore senza speranza. Questa la versione più nota, appresa da gran parte degli studenti delle scuole superiori. Ma è solo questo Leopardi? Dalla sua poesia non ci è dato distillare altro che pena e amarezza?

Yves Bonnefoy, parlando di Giacomo Leopardi in una serie di conferenze tenute in Italia, ha messo in luce alcuni aspetti del poeta che è bene rinverdire. Esplorando l’ordito di poesie come “L’infinito”, “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, “La sera del dì di festa”, “La ginestra”, “A Silvia”, “Passero solitario” e la “Quiete dopo la tempesta”, Bonnefoy intesse un discorso da poeta che incontra un altro poeta, intendendo per poesia una voce altra che coglie nel frammento il tutto, nel finito l’infinito. La visione di Bonnefoy è ben lontana da una soluzione in senso religioso, dispiegandosi piuttosto come una percezione più filosofica e ontologica della realtà intesa quale “casa dell’essere” o “casa del linguaggio”, entrambe edificate su un abisso oscuro. Tuttavia la sua sensibilità gli permette di cogliere in Leopardi anche la tensione mistica di certi “luoghi” poetici, ad esempio gli squarci notturni di quiete sublime e di pace nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, dove la luna è chiamata “vergine” e “candida”, simile a una “giovinetta immortal” contemplata con struggente tenerezza. In questi scorci di quiete e di dolce contemplazione Leopardi rivela una percezione spirituale dei silenzi sacri delle cose che aprono sentieri di luce nel suo deserto di amarezze e scoraggiamenti.

Le stesse immensità celate dietro una siepe nella lirica “L’infinito”, il sogno di “interminati spazi” e “sovrumani silenzi” hanno un’accensione quasi mistica di tensione interiore a balzare oltre le cose della natura e a cogliere quegli echi di bellezza ed eternità che si nascondono in molte altre sue poesie. Pensiamo a “La quiete dopo la tempesta”: anche se il tenue e leggero vortice di brevi pennellate festose e liete dell’inizio confluiscono inevitabilmente nel celebre «piacer figlio d’affanno», è impossibile non lasciarsi ammaliare e compiacere dai primi versi che colgono l’aria festosa di un villaggio rincuorato dopo una violenta tempesta. Pare di essere lì presenti, di avvertire la freschezza speciale delle cose, “il sereno” che «rompe là da ponente, alla montagna» mentre «chiaro nella valle il fiume appare». Davvero «ogni cor si rallegra» al ritorno del sole che “sorride”, mentre le porte e le finestre delle case si riaprono e «si rallegra ogni core». Se isoliamo le singole parole di questo prologo terso e fresco, non possiamo non riconoscere un’esultanza, il fiorire gratuito di un dolce sentire senza ragione, puro, spontaneo, proprio alla natura in certi attimi di grazia, la stessa natura che solitamente è usa a maltrattare e rinnegare i suoi figli. Eppure questo volto benigno e lieto della natura esiste e palpita, all’interno di una stessa poesia, accanto alla natura spietata e ingiusta, la natura ironicamente “cortese” a cui il poeta si rivolge con aspro sarcasmo riconoscendole il pregio di aver almeno donato all’uomo la possibilità a volte di gioire del brevissimo sollievo che segue la fine di un dolore, di una paura, di un pericolo immane. «O natura cortese, / son questi i doni tuoi, / questi i diletti sono / che tu porgi ai mortali. / Uscir di pena / è diletto a noi».

Condannato al dolore e all’insensatezza, tuttavia l’uomo è anche capace di gioire di certi attimi dolcissimi che fanno di lui un’apertura sull’infinito, uno spettatore di qualcosa di divino che si rivela nell’illimitatezza e nella dolcezza di certi silenzi e di certe notti profumate: «Dolce e chiara è la notte e senza vento» (“La sera del dì di festa”), un sussurro appena e il cuore si dilata, basta una lieve smagliatura nella trama oscura dei giorni per allentare la presa e farci sentire leggeri nel corpo e nell’anima, come ci suggerisce il poeta con questo verso semplice e grandioso nel suo ritmo piano e aperto dalla sequenza di “e” che sembrano emulare il dolce movimento di una nenia infantile.

In generale i “Canti” di Leopardi si intessono per frammenti di bagliori e lampi che all’improvviso squarciano la realtà e la accendono di una enigmatica luminescenza, simile all’assaggio di infinito immaginato dietro la siepe delle cose mute e inerti che ci stanno innanzi come recinti o prigioni. «Dolce e chiara è la notte e senza vento»:  sulla scia delle assonanze affiora la stessa dolcezza del “naufragar in questo mare” dell’“Infinito”, ulteriore prova che non sempre tutto è solo dolore su questa nostra terra, “atomo opaco del male” su cui siamo gettati per caso. Come fiori di smalti lucenti alla deriva su acque cupe e limacciose, questi attimi di mistico abbandono s’effondono spesso da cose umili, semplici e quotidiane come nella struggente “A Silvia”: «Sonavan le quiete / stanze, e le vie dintorno / al tuo perpetuo canto», oppure «Era il maggio odoroso: e tu solevi /così menare il giorno». Il canto di una fanciulla dedita alle sue occupazioni domestiche, i profumi della primavera, tutta l’aura di refrigerio e conciliata armonia avvolge di luce i cammei di questa lirica, che sono musica nella musica, fresco canto nel canto del poeta che trae gioia liberando sulla pagina la propria danza sonora che è gioia a se stessa

Sono frammenti, sparsi qua e là, da spigolare con pazienza, da assaporare in silenzio. Il dolore e lo scoramento suscitati dalla condanna a un’esistenza di sofferenza senza alcun’approdo restano comunque il motivo dominante della poesia leopardiana, poesia pessimista e cupa. Ma qua e là è bello ricercare ed ascoltare quegli improvvisi echi che solcano come lampi la musica di fondo, brevissimi, sospesi, cristallini. La pace e l’appagamento che ne vengono sono frutto delle rimembranze o delle impressioni dolci del presente oggetto della lirica e insieme l’esito del poetare stesso del Leopardi, libero ed aperto, dotato di una naturale squisita misura e melodia.

Se grandi furono le sofferenze del poeta, ben si può dire che a ripagarlo furono da una parte la sua capacità di cogliere nei frammenti di una vita e di un mondo spesso aridi e avari la polvere d’oro frammista al fango e dall’altra l’inimitabile talento nel vestire questi attimi supremi con le vesti ariose e belle dei suoi versi fluenti. Versi che si succedono come le onde del mare, in una sorta di moto perpetuo che sospinge come un vento gagliardo e schietto il ritmo mirabile del canto. Due gioie sorelle procedono di pari passo nel mondo del poeta e si arricchiscono reciprocamente: la capacità di avvertire e assaporare gli attimi di grazia della vita e il talento nell’evocarli e in generale nel trarre dal linguaggio musiche belle e armoniose, parole e nessi tra parole il cui suono è già in se stesso l’emozione percepita. Anche senza capire il senso logico del verso, è possibile comprendere la sensazione evocata ascoltando la sua vibrazione sonora.

Come dalla “torre antica” del “Passero solitario”, il poeta contempla la vita che gli scorre intorno, ora rattristandosi e sciogliendosi in mille domande senza risposta, ora immergendosi nella bellezza dei campi dove «erra l’armonia per questa valle.
/ Primavera dintorno / brilla nell’aria, e per li campi esulta,
/ sì ch’a mirarla intenerisce il core». Dolcezza, tenerezza, quiete e umano abbandono: sono le stesse note che echeggiano in chiunque non abbia solo sete di infinito, ma in qualche oscuro modo, nel profondo di sé, avverta l’inesplicabile certezza che un infinito pure esiste e che la vita infondo non è che il breve viaggio oltre la siepe.

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