Non sorprende che la presidente della Camera, Laura Boldrini, scriva una letterina a Facebook chiedendogli di diventare il tutore delle notizie che circolano sul social network. Non sorprende perché i guardiani già arruolati da Zuckerberg per questo compito pendono tutti da una certa parte politica, a cominciare da quella Associated Press, autorevolissima agenzia di stampa, che nei giorni scorsi ha diramato la notizia di una imminente mobilitazione di centomila uomini della Guardia Nazionale negli Usa per dare la caccia agli immigrati, peccato che la notizia non avesse il minimo fondamento.
Non sorprende perché lo stesso Zuckerberg si è candidato a guidare i disperati liberal, mentre, tornando alle vicende di casa nostra, in Senato è già stata depositata una proposta di legge che prevede multe e carcere per chi diffonde fake news, e la prima firmataria è una ex 5 stelle, Adele Gambaro, passata al collateralismo renziano (sta con Denis Verdini).
Chi controlla i controllori? Who watches the Watchmen? per dirla col titolo di un celebre fumetto di supereroi in debito con il latino Giovenale? Chi decide cosa è “fake” e cosa non lo è? La notizia battuta da Associated Press evidentemente era un falso, non era stata verificata, eppure ha continuato a girare indisturbata su giornali online e social media. Si può dire allora che una certa politica e certi media, pur di difendere il regime del politicamente corretto, l’ideologia del liberismo progressista, tutto global, multikulti ed LGBT (un pensiero che sta lentamente franando), si sono consegnati mani e piedi ai padroni di Internet, che controllano il 90 per cento della pubblicità online in Europa.
Il rischio di questa subordinazione della politica alla tecnocrazia del web, che non è neutrale, come invece hanno cercato di farci credere per anni gli stessi Google, Facebook e Twitter, è presto detto: l’algoritmo di Facebook funzionava grazie a un calcolo preventivo della popolarità di un “post” o di una notizia, cosa che, come Occidentale, ci ha permesso, nel nostro piccolo, di avere un’ampia copertura quando abbiamo raccontato la campagna elettorale del presidente Trump, oppure quando abbiamo denunciato le persecuzioni sessuali, le molestie e degli stupri a cui sono condannate nel silenzio tante donne in Europa, sovente da parte di immigrati arabi e nordafricani, musulmani.
Ma che succederà adesso? Qualche controllore di bufale amico della Boldrini verrà a dirci che scriviamo bugie e il solerte omino di Facebook o Google farà sparire o retrocedere le nostre notizie in Rete? Finirà come su Twitter, dove se pubblicizzi (ci è capitato anche questo) un post su Steve Bannon o sulla “Gerusalemme islamica” varata nei mesi scorsi all’Onu, il popolare sito di micro-blogging ti impedisce di portare a termine la promozione giudicando il tuo contenuto inadatto?
Ma ora qualcuno dirà che stiamo scrivendo una fake news, che non c’è nessun complotto, che con Internet è tutto bello e trasparente. Siamo diventati così schiavi di queste protuberanze, il nostro iPhone, il nostro iPad, la connessione, gli amici su Facebook, i follower su Twitter, WhatsApp e tutto il circo narcisistico, la ricerca di un successo solo virtuale, che ci circonda, da aver perso di vista la vita reale. Per questo, soprattutto i giovani appaiono poco reattivi (“E puoi urlare che tanto la giungla/ soffoca la tua voce/ però ti lasciano contare/ su tutti quei mi piace”, canta Ligabue), per questo accademici e giornalisti non hanno minimamente preso posizione dopo la grottesca lettera della Boldrini. Trump si è ribellato. Wikileaks si è ribellata. Le isole nella Rete si sono ribellate. E come tanti di noi continuano a fare controinformazione.
di Roberto Santoro
Fonte: https://www.loccidentale.it
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