Eutanasia all’italiana senza obiezione di coscienza?




Il 20 aprile è stato approvato dalla Camera dei deputati il disegno di legge recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, ora in attesa della decisione del Senato. Per una valutazione non è privo di significato che il disegno di legge sia stato presentato all’opinione pubblica sotto il nome di biotestamento per evidenziare (sul punto si è battuto molto) la necessità di una legge che garantisca il diritto di tutti, anche di chi abbia perduto in tutto o in parte (o mai posseduto) la capacità di intendere e valore, all’autodeterminazione in materia sanitaria, in particolare con riguardo al momento finale dell’esistenza. Il presupposto dell’intera costruzione è, quindi, costituito dal consenso informato, in realtà da tempo presente nel nostro ordinamento giuridico, ma ora ridisciplinato dall’articolo 1.

Pur nella piena consapevolezza della importanza degli articoli 3 (Minori e incapaci) e 4 (Disposizioni anticipate di trattamento) essenziali per capire lo scopo “politico” perseguito dal legislatore, è l’esame dell’art. 1 (al quale ora ci si limita anche per ragioni di spazio) a porre le questioni essenziali per una valutazione “giuridica” del provvedimento: 1) si tratta di una via italiana all’eutanasia?, 2) sono state previste forme di obiezione di coscienza e, se no, era (ed è) necessario prevederle?

In realtà molte delle disposizioni di cui all’art. 1 sono più che altro integrative o riepilogative dell’esistente. Non bastasse l’art. 32 della Costituzione, l’Italia ha aderito da tempo alla Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedica varata ad Oviedo il 4 aprile 1997, che all’art. 5 stabilisce che ogni “intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato”, liberamente revocabile in qualunque momento, e che per i minori e le persone impossibilitate ad esprimersi va dato da un loro rappresentante. L’art. 1 da questo punto di vista non aggiunge nulla di sostanzialmente nuovo. Di nuovo e decisivo c’è però il dettato del 5° comma: “Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici”. Questa la disposizione decisiva ai fini del giudizio. E’, difatti evidente che il paziente afflitto da un male che di per sé non avrebbe un immediato e nemmeno prossimo esito fatale, ma lo rende incapace di nutrirsi e dissetarsi o di essere nutrito e dissetato per via naturale, rifiutando la nutrizione e l’idratazione artificiali, come lo autorizza a fare una legge che qualifica queste pratiche quali trattamenti sanitari, è destinato a morire nel giro di una decina di giorni nella speranza che il palliativo della “sedazione profonda” (richiamata dall’art. 2/2° comma) gli eviti spasmi dolorosi. Si tratta di disposizioni di palese natura eutanasica, confermata (ingigantita) dalla loro assoluta vincolatività per il medico, come ha osservato in un’intervista una dei non molti deputati schieratisi contro, Eugenia Roccella, che ha anche ricordato l’opinione espressa da Maria Antonietta Coscioni, secondo la quale non era necessario portare il Dj Fabo a morire in Svizzera, perché bastava la mancanza di idratazione e alimentazione.

All’indiretta, ma significativa conferma “giurisprudenziale” della natura eutanasica del disegno di legge (quanto meno nella sua applicazione pratica, che è poi come dire l’effettivo contenuto e significato di ogni norma) ha prontamente provveduto la Procura di Milano con la richiesta di archiviazione dell’autodenuncia del radicale Marco Cappato per istigazione al suicidio. La vicenda è quella del Dj Fabo, al secolo Fabiano Antoniani, che ha scelto la strada della “buona morte” presso una clinica svizzera, dove è stato accompagnato appunto dal Cappato, che appena rientrato in Italia si era affrettato ad autodenunciarsi. Ritiene la Procura che il Cappato non abbia commesso il reato di aiuto al suicidio di cui all’art. 580 del codice penale, perché le ”pratiche di suicidio assistito non costituiscono una violazione del diritto alla vita quando siano connesse a situazioni oggettivamente valutabili di malattia terminale e gravida di sofferenze o ritenuta intollerabile e/o indegna dal malato stesso” difatti “non pare peregrino affermare che la giurisprudenza anche di rango costituzionale e sovranazionale ha inteso affiancare al principio del diritto alla vita tout court il diritto alla dignità della vita intesa come sinonimo dell’umana dignità”.

In realtà di tutto questo non si trova traccia nella disposizione di cui alla’rt. 580 del codice penale, che punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio, una fattispecie che per espresso disposto di legge ricorre ogniqualvolta si verifichi il fatto oggettivo dell’agevolazione all’auto-soppressione di un essere umano quali che ne siano le cause, le motivazioni e le giustificazioni, che anzi, nel caso del Dj Fabo, potrebbero, in ipotesi, comportare anche l’applicazione delle aggravanti di cui al secondo comma n.2 dell’art. 579: cioè l’avere prestato aiuto ad una persona “in condizioni di deficienza psichica per un’altra infermità”. E’ evidente che i criteri interpretativi adottati dalla Procura milanese, indubbiamente “innovativi” per quanto riguarda nell’attualità il reato di aiuto al suicidio, risulteranno molto più agevoli e plausibili applicati ad una legge che non solo richiama più volte un concetto come quello di “dignità” dai contenuti imprecisi, ma che, come risulta dagli insistenti richiami nei lavori parlamentari, ha il suo presupposto logico e la sua giustificazione appunto nella distinzione fra “vita”, indiscutibile evento fisico del mondo naturale, e “vita degna di essere vissuta”, valutazione soggettiva, suscettibile anche di variare nel tempo, sia dello stesso titolare del diritto all’esistenza, sia, nei casi previsti dagli articoli 3 e 4, di soggetti terzi: familiari, tutori, amministratori di sostegno, fiduciari, medici, équipes sanitarie, giudici.

E’ questa natura eutanasica del provvedimento ad attribuire valore determinante alla questione del riconoscimento del diritto del medico all’obiezione di coscienza. Quasi tutti i mass-media hanno riferito che tale diritto sarebbe stato riconosciuto grazie ad un emendamento proposto dal PD. Si tratta di una fake news, perché tutte  le proposte di espresso riconoscimento dell’obiezione sono state bocciate dall’inedita alleanza PD-M5S. In compenso il 6° comma dell’art. 1 così dispone: “Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale. Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”. In realtà nessun compenso e nessun riconoscimento. La disposizione, non per nulla formulata in modo involuto (per questo suscettibile anche d’interpretazioni più rigorose a danno dei medici potenziali obiettori), ribadisce l’obbligo assoluto del medico di attenersi alla volontà del paziente, quale espressa direttamente a lui o risultante dalle Dat, salvo il caso che il paziente richieda “trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali”. Nella voluta indeterminatezza della disposizione è comunque certo che il medico non può obiettare, in quanto espressamente consentito e quindi dichiarato ex lege conforme alla buona pratica medica e alla deontologia professionale, al rifiuto della nutrizione e idratazione artificiale.

Nello stesso senso di diniego di ogni forma di obiezione di coscienza la disposizione di cui al comma 9: ”Ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei princìpi di cui alla presente legge, assicurando l’informazione necessaria ai pazienti e l’adeguata formazione del personale”. Un precetto assoluto, valido anche per le strutture sanitarie create da enti, gruppi, associazioni ispirati a fedi e convinzioni che condannano qualunque forma di eutanasia (in Italia, principalmente, ma non soltanto, le cliniche, le case di cura e gli ospedali cattolici).

Va detto che nella fase di preparazione e approvazione del disegno di legge l’opposizione del mondo politico cattolico è sembrata a molti non troppo determinata e, comunque, di chiunque sia la responsabilità, non ha avuto successo. Si può sperare che l’esempio di quei parroci molisani, che hanno suonato le campane a morto, insegni qualcosa, e che, quale che sia l’esito finale, le cose vadano diversamente in Senato. Del resto non mancano gli argomenti di puro diritto.

Nella parte conclusiva dello scritto “Obiezione di coscienza. Una nuova sfida del diritto moderno” di Valter Brunetti, sost. Proc. Rep. presso il Tribunale di Napoli (Il Diritto vivente, rivista on line di Magistratura indipendente) si legge: ”La Costituzione nelle norme ex artt. 2 , 13, 19, 21 riconosce un diritto generale di obiezione di coscienza. Il diritto inviolabile è generale perché va riconosciuto ad ogni persona, senza esclusione di sorta. La soluzione interpretativa costituzionalmente orientata è perfettamente coerente con le norme internazionali e sopranazionali (…). Nella norma ex art. 18 CEDU si rinviene la solenne affermazione “Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”. La disposizione ex art. 9 CEDU riconosce ad “ogni persona” il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. (…) Se dunque il diritto spetta a ogni uomo in quanto dotato di ragione e di coscienza, nessuna eccezione alla libertà di coscienza può essere posta dal legislatore ordinario. La giurisprudenza della Corte Costituzionale offre ulteriore conferme. La Corte Costituzionale nella parte motiva della sentenza n. 467 del 1991 pone un principio di sostanziale obbligatorietà per lo Stato democratico di riconoscere l’obiezione di coscienza. Il diritto sussiste prima del riconoscimento da parte del legislatore, tuttavia sempre auspicabile. La non eccezionalità delle norme di disciplina dell’obiezione di coscienza nei casi già previsti, consente all’interprete l’applicazione analogica delle dette norme ai casi non ancora espressamente disciplinati. Il riconoscimento in sede interpretativa di un diritto costituzionale inviolabile spettante ad ogni persona, di cui l’obiezione di coscienza è sicura espressione, senza eccezioni e indipendentemente da interventi del legislatore, è una corretta risposta all’esigenza della società civile di giustizia e di tutela di valori condivisi che nella Carta costituzionale trovano il loro fondamento”.

Di conseguenza, pur se sarebbe auspicabile un espresso riconoscimento ad hoc, anche nel caso che il Senato si ostini nel rifiuto, vi sono le basi, confermate da autorevolissimi precedenti giurisprudenziali, perché quanto meno i medici (ma anche le strutture sanitarie) possano proporre la questione con ottime probabilità di successo in sede giudiziaria.

Non basta. Il  27 aprile l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha adottato una Risoluzione che, in presenza della crescente diversità delle appartenenze religiose in Europa, sollecita gli Stati ad “affermare” e “proteggere il diritto di tutti di non essere costretti a compiere azioni che vanno contro le loro profonde credenze morali e religiose”. Non v’è dubbio che l’obbligo di collaborare alle procedure eutanasiche determina un radicale contrasto con la fede degli operatori sanitari cristiani.

Da questo punto di vista i deputati possono scusare il loro voto con la mancata conoscenza della Risoluzione europea, approvata una settimana dopo la loro delibera (nonché della ricordata richiesta di archiviazione della Procura di Milano). I senatori no.

di Francesco Mario Agnoli

Fonte: http://www.libertaepersona.org

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