Eugenio Finardi e la società liquida




“Vorrei essere come l’acqua che si lascia andare, che scivola su tutto, che si fa assorbire, che supera ogni ostacolo finché non raggiunge il mare e lì si ferma a meditare per scegliere se esser ghiaccio o vapore, se fermarsi o se ricominciare”.

Il testo della “Canzone dell’acqua” (1979) di Eugenio Finardi sembrerebbe sintetizzare nel modo più completo quella che alcuni sociologi hanno chiamato “società liquida”, ovvero un modello sociale in cui, sempre seguendo il testo del cantautore milanese, le incertezze, le disillusioni e le angosce diventano un sentimento comune: “Stasera ho chiesto al caso che cosa devo fare, sono stanco del mio ruolo e ho voglia di cambiare, non so se andare avanti o se è il caso di scappare”. Eppure non tutti sanno che, solamente qualche anno prima, nel 1976, le canzoni di Finardi venivano proposte come sigle di programmi radiofonici che proponevano la musica d’autore alternativa e rivoluzionaria . Quelle canzoni impegnate volevano sollecitare i giovani a lottare ed a difendere gli ideali di libertà, come si evince dal testo della Musica ribelle: “E’ la musica ribelle che ti vibra nelle ossa che ti entra nella pelle, che ti dice di uscire, che ti urla di cambiare, di mollare le menate e di metterti a lottare”. Anche nella “La radio” venivano espressi i medesimi sentimenti libertari: “Se una radio è libera, ma libera veramente, mi piace ancor di più perché libera la mente”. Nonostante l’impegno profuso nei testi delle sue canzoni, Finardi ha espresso sin dall’inizio, e forse è stato questo aspetto il segreto del suo successo, l’incertezza sistematica, il dubbio esistenziale, come si può comprendere nella canzone Se solo avessi del 1975: “Se solo avessi le idee più chiare, allora sì che io farei tutte le cose che vorrei; ma siccome le idee chiare non ce le ho, fermo resterò in casa ad aspettare e a non fare”. Un’altra sua canzone del 1976, La paura del domani, condensa già nel titolo l’irrisolutezza, l’indecisione tipica del mondo adolescenziale: “La paura del domani è sbagliata e tu lo sai perché porta alla rinuncia che non serve mai e non voglio dir con questo che bisogna ignorare quel che c’è di sbagliato per tirare a campare”. L’incapacità di trovare una via d’uscita alla fragilità umana sembra affidata, nei testi di Finardi, al solo intervento “soprannaturale”.

Emblematica appare infatti la canzone Extraterrestre del 1978 quale via d’uscita da un mondo insopportabile: “Extraterrestre portami via, voglio una stella che sia tutta mia; extraterrestre vienimi a cercare, voglio un pianeta su cui ricominciare”. Il mancato riconoscimento della presenza reale di Dio nella propria vita  è stato sempre espresso da Finardi in modo molto sincero: “Non credo in un essere superiore creatore dell’universo. Non ne sento il bisogno … Capisco anche che Dio esiste ed è tangibile per chi ha fede”. In perfetta coerenza logica, il “soprannaturale” extraterrestre a cui ha affidato le sue speranze di riscatto anche sociale non può che diventare una vaga illusione: “Ma dopo un po’ di tempo la sua sicurezza comincia a dare segni di incertezza, si sente crescere dentro l’amarezza perché adesso che il suo scopo è stato realizzato (un extraterrestre l’ha portato su un altro pianeta) si sente ancora vuoto, si accorge che in lui niente è cambiato e che le sue paure non se ne sono andate”. Cantando con Finardi impariamo a considerare il vero bisogno di Dio che può dare senso pieno alla nostra vita e riempire il cuore di quella gioia che solo la Sua presenza può donare, pena l’insignificanza contenuta in un recente testo (2012) di un’altra sua canzone, “E tu lo chiami Dio”: “Vorrei volare ma non posso e resto fermo qua su questo piano che si chiama terra … appena io mi rendo conto di avere perso la metà del tempo e quello che mi resta è di trovare un senso…”.

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