Elogio dei Café




Saremo onesti e diretti: una delle cose che più ci mancano della Mitteleuropea asburgica sono i cafè. Chi è stato almeno una volta al mitico Griensteidl di Vienna sulla Michaelerplatz non ha bisogno di ulteriori argomentazioni, per tutti gli altri proveremo a farlo brevemente qui. Capire oggi che cos’era e che cos’ha rappresentato il cafè non è facile. Anzitutto, sgombriamo il campo dai facili equivoci: quando parliamo di cafè, cioè di un locale pubblico, aperto a tutti, con orario continuato dalla mattina alla sera, dove ci si ferma per una sosta, calda o refrigerante, a seconda delle stagioni, non stiamo parlando di bar e nemmeno di pub come li intendiamo noi oggi. Anzi, soprattutto se paragonato alla concezione italiana del nostro bar sotto casa in cui magari andiamo a fare colazione frettolosamente la mattina non potrebbe esserci nulla di più lontano. Il vero cafè mitteleuropeo nasce in Austria, proprio a Vienna,è infatti anche e meglio noto come Wiener Kaffeehaus, verso la fine del XVIII secolo, e con un’identità immediatamente rintracciabile che si lega ai gusti e ai sapori della tradizione viennese. Certo, all’inizio l’obiettivo è piuttosto commerciale e molto concreto: diffondere quella nuova bevanda ‘esotica’ di cui tanto si parla in Europa, il caffè appunto, incrementando i rapporti con l’Oriente e gli ambiziosi esportatori, greci in particolare. Dopo una fase di improbabili mescolanze, si affermerà la versione con una spolverata di zucchero e due o tre cucchiai di latte a piacimento e quello diventerà ufficialmente il caffè viennese. Ma  quello che passerà realmente alla storia sarà appunto il locale del cafè in quanto tale. Prückel, Hawelka, Schwarzenberg, oltre al già citato Griensteidl, sono tutti nomi di locali le cui pareti – se potessero – potrebbero veramente raccontare com’era quella civiltà e come trascorreva le sue giornate, fotogramma per fotogramma, oseremmo dire. Il cafè infatti diventò in breve un luogo d’incontro, popolare ed elegante al tempo stesso, in cui si facevano e si pensavano – con rigore ma anche con passione – politica ed arte, poesia e letteratura, diritto ed estetica. Chi forse ha trasmesso meglio ai posteri quello che accadeva al suo interno è stato lo scrittore Stefan Zweig che ha ritratto i contorni del cafè come se fosse un rito civile della sacra monarchia, e a suo modo non sbagliava: “unistituzione di un certo tipo, in realtà una sorta di club democratico, aperto a tutti al prezzo di una tazzina di caffè a buon mercato, dove ogni ospite può sedersi per ore con questa piccola offerta, per parlare, scrivere, giocare a carte, ricevere lettere e, soprattutto, consumare un numero illimitato di giornali e riviste”.

            Quest’ultima annotazione rivela il vero scopo dei cafè: la tazzina era il pretesto pratico, o anche una scusa elegante se si vuole, tra lampade a petrolio e sedie thonet, per parlare di cose serie e perfino ultime, non escluse le cose supreme. L’idea era infatti che uno andasse nel cafè per ore, o anche per intere giornate, perché non sapeva chi ci avrebbe trovato e quale sarebbe stato il tema di conversazione del giorno. Perché anche questo rientrava nell’estetica dei cafè: ogni giorno si era certi che si sarebbe parlato di qualcosa, l’ultima novità dal Prater o quella voce di corridoio giunta dalle stanze imperiali che le gazzette avevano subito raccolto e commentato, chissà. Gazzette e riviste le facevano infatti da padrone ed è impossibile fare l’elenco di tutte quelle che nacquero (o vennero scritte, o pensate) tra una tazzina, una ciambella e un biscotto, oltre all’abituale strudel d’ordinanza. Non erano giornaletti da strapazzo, come si potrebbe pensare con i tempi che corrono, ma fogli d’opinione, colti ed impegnati, oltre che di approfondimento, in cui la polemica viva era il pane quotidiano. Tanto è vero che un critico brillante come Karl Kraus alla fine ci costruì sopra una carriera. Girava infaticabilmente in lungo e in largo per tutti i vicoli della Vienna di allora non perdendosi nessuna delle prime a teatro e potevi stare certo di trovare (leggendolo gratuitamente, per il tempo che volevi) il suo temutissimo pezzo, politicamente scorrettissimo, il giorno dopo in tutti i cafè della capitale. Si badi, tutto questo però implicava anche che per poter usufruire di questa fine civiltà, praticamente a costo zero, e trovarti magari Hofmannsthal seduto a scrivere al tavolo accanto, dovevi rispettare il galateo del luogo, che prevedeva anche la censura. Se alzavi la voce più del dovuto o te ne uscivi in malomodo in un centesimo di secondo ti saresti trovato gli sguardi stupefatti di tutti gli astanti su di te. Se poi avessi insistito saresti stato ripreso all’istante, e più di qualcuno ti avrebbe chiesto senza troppi formalismi da che razza di posto venivi mai. Poi, per starci, ovviamente, dovevi dimostrare di essere all’altezza perché il primo caffè non si nega a nessuno ma gli altri devi conquistarteli, a suon di citazioni dotte o sfoderando un fine spirito critico, fate voi, ma il ‘non so’, ‘non penso’, ‘non credo’ non era tra le risposte ammesse sulla carta. E tanto altro ci sarebbe da dire, ad esempio sul tipo di gusto che quei luoghi con le loro luci soffuse e delicate veicolavano: arredare un locale del genere con della plastica, o del cartone, o piazzare delle luci a neon sul soffitto ad esempio (per riprendere cose che si vedono con una certa frequenza oggigiorno) sarebbe stato considerato allora un atto semi-barbaro, alla stregua di un ‘crimine contro la decenza dell’umanità’, da tipi come Kraus. Si dirà che si esagerava un po’ ed era un mondo a tratti ipocrita, falso e pieno di contraddizioni. Forse. Però adesso, chissà perché, lo rimpiangono tutti. Nel bene e nel male. Sarà che sono cambiate troppe cose, in ogni campo, e non si ritrova più il bandolo della matassa. O, come ha detto recentemente con un po’ di pepe un giornalista, sarà che loro avevano ancora come oggetto di discussione, e metro di paragone, i Greci – con tutto che erano prima di Cristo – e la Repubblica di Platone, mentre noi abbiamo le Iene e la Repubblica di Ezio Mauro, con il che si vede proprio che ogni tempo ha quel che si merita.

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