“Ecco perché non mi definisco gay”. In Italia l’anti Martin




Arriva in Italia Daniel Mattson, autore del libro Perché non mi definisco gay – Come ho recuperato la mia identità sessuale e trovato la pace. La sua storia è un “pugno in faccia” alla tendenza omoeretica e un inno alla Chiesa, che lo ha abbracciato partendo da un dato naturale: «Siamo maschi e femmine. Per rispettare qualcuno dobbiamo riconoscere la sua identità. Tutto il resto sono un falso rispetto, una falsa delicatezza e una falsa compassione».
In occasione del suo arrivo in Italia per la presentazione del suo libro, pubblichiamo l’intervista del mensile Il Timone a Daniel Mattson (clicca qui per leggere il numero di Maggio). Mattson ha raccontato la sua storia nel libro Why I don’t call myself gay – How I reclaimed my sexual reality and found peace (Perché non mi definisco gay – Come ho recuperato la mia identità sessuale e trovato la pace). Nell’intervista parla dell’importanza dell’Apostolato diu preghiera Courage, un approccio al problema dell’omosessualità in ossequio alla dottrina della Chiesa e non incine alle forme di omoeresia che vedono nel gesuita James Martin il suo principale estensore. Daniel Mattson sarà in Italia a maggio per presentare il suo libro Perché non mi definisco gay – Come ho recuperato la mia identità sessuale e trovato la pace, tradotto in italiano da Cantagalli, con la prefazione del cardinale Robert Sarah. Queste le date principali: 23 e 25 maggio a Roma, 28 maggio Rocca di Papa, 29 maggio Napoli, 30 maggio Milano. Tutti i dettagli sul sito www.nonmidefiniscogay.blog. Altri link di riferimento: www.courageitalia.it e www.everlastinghills.org.
***
«Ho scritto il libro che avrei voluto leggere quando avevo 19 anni. Stavo iniziando il college e con esso la mia vita indipendente. Provavo attrazione per gli uomini e mi facevo tante domande: sulla fede, su Dio, sul mio futuro, sulla mia identità. Non capivo il senso profondo della sessualità umana e mi stavo convincendo che avrei vissuto una miserevole vita di solitudine. Ho messo nero su bianco la mia vita nella speranza di aiutare le persone, soprattutto i giovani, che si trovano nella stessa situazione». Daniel Mattson è un musicista, suona il trombone nell’Orchestra di Gran Rapids, in Michigan, e a maggio sarà in Italia per presentare Why I don’t call myself gay – How I reclaimed my sexual reality and found peace (Perché non mi definisco gay – Come ho recuperato la mia identità sessuale e trovato la pace).
Il testo, uscito negli Usa per l’editrice Ignatius Press con la prefazione del cardinale Robert Sarah (tradotto in Italia da Cantagalli), ha fatto discutere perché è considerato il contraltare del libro del gesuita James Martin, Building a bridge: How the Catholic Church and the Lgbt community can enter into a relationship of respect, compassion and sensitivity (Costruire un ponte: come la Chiesa cattolica e la comunità Lgbt possono instaurare una relazione di rispetto, compassione e delicatezza). Se Martin infatti, consulente della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede, sostiene la necessità di una pastorale che metta al centro l’acronimo Lgbt, ovvero l’utilizzo dei termini “gay”, “lesbica”, ecc., Mattson sostiene l’opposto. «La ragione più grande per cui rifiuto di definirmi gay è semplice: penso che non sia oggettivamente vero. Focalizzarsi sui sentimenti porta le persone lontano dalla loro realtà di figli di Dio nati maschi e femmine. Dobbiamo imparare a distinguere la nostra identità dalla nostra attrazione sessuale, dal nostro comportamento. Non è quello che “sentiamo” che deve regolare la nostra vita, altrimenti passeremmo col semaforo rosso solo perché, appunto, ce lo “sentiamo”. Esiste una oggettiva verità che ci protegge, fatta per il nostro bene. Altrimenti sarebbe il caos: ci sono uomini che si sentono donne, donne che si sentono gatti, persone che sentono che non avrebbero dovuto nascere con le gambe e si sono fatte operare per amputarsele: è normale questo? L’esempio è estremo, ma è reale». Mattson è arrivato a questa consapevolezza nonostante sappia bene cosa significhi vivere un’attrazione per persone del proprio sesso. Da ragazzino si sentiva attratto dai suoi compagni, con i quali si sentiva a disagio, sebbene desiderasse essere come loro. Eppure, spiega, «l’idea di essere gay non mi sfiorava minimamente, men che meno quella di avere un rapporto con un uomo».
– Tutto è cambiato ad un campo Scout.
«Allora si trattava di giornaletti – spiega in questa intervista al Timone –. Ricordo come se fosse ieri l’avidità con cui abbiamo iniziato a consumare quelle pagine, così come ricordo quanto male mi sentissi il giorno dopo. Eppure da subito la pornografia ha inquinato la mia visione della sessualità, tutto era solo piacere, soddisfazione del desiderio, ricerca di un nuovo piacere. Dai giornali sono passato al web. Era la mia droga e fu grazie ad essa che tutti i comportamenti sessuali erano diventati per me ormai leciti».
– Infatti poco dopo arriva l’incontro con l’uomo con cui hai il primo rapporto omoerotico, uno sconosciuto contattato online. Descrivi questa esperienza come disgustosa…
«Non potevo credere di aver aspettato 32 anni per una cosa tanto squallida, però quella è stata la molla che mi ha fatto capire che cercavo di più, un compagno di vita, una persona con cui condividere valori e quotidianità».
– Così hai incontrato Jason con cui sei stato per circa un anno.
«Credo che la base delle relazioni gay sia il vuoto profondo che si percepisce e si cerca di colmare, a volte con il sesso. Tra uomini è molto potente e crea molta dipendenza. Al netto di questo, guardandomi indietro la mia relazione con Jason era in un certo senso ordinaria: nessuno di noi era un attivista del movimento gay e ci facevamo molta compagnia. Arrivo a dire che ero in qualche modo felice con lui. Certamente felice solamente per quanto sapevo si potesse essere felici, perché dentro di me quel senso di vuoto restava. Eppure avevo trovato un equilibrio e mi stavo preparando a fare coming out con la mia famiglia».
– … quando all’improvviso è arrivato il colpo di fulmine con una donna.
«Non volevo innamorarmi di Kelly, ma è accaduto e la mia vita è stata nuovamente ribaltata. La mia storia con Jason è finita e ho iniziato a frequentare una donna che sembrava fatta per me tanto forte era l’intesa. Finalmente mi sentivo nel posto giusto, con la persona giusta e iniziavo a fare progetti per il futuro. Sono andato a comprare un anello per chiederle di sposarmi…».
– Ed è arrivata un’altra doccia fredda…
«Già. Kelly mi ha detto che non voleva avere figli. Ho sentito il mondo crollarmi addosso, abbiamo preso un periodo di riflessione ma, sebbene io fossi ancora molto immaturo nella fede, ero certo di voler diventare padre. Oggi sono convinto che quello di lasciare Kelly, nonostante sia stato uno dei momenti più laceranti e devastanti della mia vita, sia stato anche uno dei passaggi fondamentali del mio percorso. Il Signore ha avuto bisogno di togliermi Kelly perché io mi innamorassi di Lui».
– Qui inizia il tuo faticoso, ma affascinante ritorno alla Chiesa, in cui un ruolo fondamentale lo ha avuto l’apostolato di Courage, che si rivolge a persone attratte dallo stesso sesso.
«Courage è stato il modo in cui la Chiesa mi ha accompagnato. Una delle ragioni principali per cui sono tornato alla Chiesa è il suo abbraccio chiaro alla realtà oggettiva della natura sessuale, così come è rivelata nei nostri corpi. Dio ha dato un nome alla nostra sessualità nella Genesi: maschi e femmine, e questo è. Niente di più e niente di meno della bellezza di questi due sessi».
– Eppure padre James Martin sostiene esattamente il contrario, ovvero che ci sia bisogno di una pastorale dedicata per il mondo cosiddetto Lgbt.
«Credo che Martin sia innanzitutto confuso su quello che dice il Catechismo della Chiesa cattolica. Faccio riferimento al paragrafo che lui sviluppa nel suo libro, il 2358, ovvero quello sulla necessità di avere rispetto, compassione e delicatezza. Siamo di fronte ad un insegnamento molto chiaro. Cosa significa rispetto? Per rispettare veramente qualcuno dobbiamo innanzitutto riconoscere la sua identità. È una questione di antropologia e per la Chiesa non c’è spazio per termini come “gay”, “lesbiche” o “transgender” che sono una riduzione della persona. Solo quello che è vero è autenticamente pastorale: e la verità è che noi siamo uomini e donne. Tutto il resto sono un falso rispetto, una falsa delicatezza e una falsa compassione».
– Oggi la castità – su cui Courage lavora – è considerata una richiesta eccessiva, impossibile da realizzare tanto che la si propone ma sempre meno anche a chi si prepara al matrimonio. Ha fatto discutere un corso, organizzato e poi annullato dalla Diocesi di Torino, che proponeva alle coppie omosessuali di lavorare sulla fedeltà.
«Personalmente lo trovo offensivo. Io sono fatto per molto più che la fedeltà verso un uomo, sono chiamato a un’appartenenza totale al Signore che passa prima di tutto dalla verità di chi sono. Ripensando a Jason, oggi so che due uomini non sono fatti per stare insieme: se si vogliono veramente bene devono smettere di fare sesso, perché il vero amore per l’altro è l’amicizia nella fratellanza, non l’atto omoerotico. Questo dice la Chiesa e questa è la via per essere veramente felici. Sarebbe un insulto proporre qualcosa di meno della felicità piena “perché è troppo difficile”, non si diventa cristiani per avere una vita confortevole. Questo vale anche per le coppie di fidanzati, quand’anche già convivessero. La Chiesa deve dire: siccome ti amo ti propongo qualcosa di più. Certo che è faticoso, ma non ci è stato forse promesso il centuplo quaggiù?».
di Raffaella Frullone
Fonte: http://www.lanuovabq.it

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *