Con Trump finisce l’epoca della dittatura relativista in Occidente?




La clamorosa vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti porta ora al potere, proprio nel cuore dell’Occidente, la grande rivolta neo-populista contro le élites politiche, economiche e intellettuali transnazionali che da tempo infuria in Europa, e che si è concretizzata in una miriade di movimenti e leadership anti-establishment variamente caratterizzati. Essa rappresenta dunque indubbiamente un avvenimento di rilevanza storica, che può provocare a sua volta reazioni a catena di portata ancora imprevedibile nel Vecchio Continente e in altre parti del mondo.

Hillary Rodham Clinton – candidata “predestinata” alla Casa Bianca per diritto dinastico, a capo di una fondazione miliardaria finanziata da potentati economici interni ed esteri, appoggiata quasi unanimemente da tutto il sistema della grande finanza, dei media e dello spettacolo – è divenuta il più emblematico simbolo di una classe politica liberal percepita ormai da una larga parte dell’elettorato americano come oligarchica, lontana anni luce dai problemi reali della società, al servizio di interessi privati e lobbystici. Contro di lei Trump si è imposto come la perfetta nemesi e il contrario speculare di quell’establishment tecnocratico e radical-individualista: ha colonizzato il Grand Old Party, e poi conquistato la Casa Bianca, presentandosi come il paladino del common people (quegli strati sociali poco “eccellenti” e poco “glamour”, disprezzati dalla Clinton come “deplorevoli”), il protettore di una nazione smarrita dagli scompensi e dai paradossi della globalizzazione.

E’ riuscito così a mobilitare un’area sociale molto vasta, trasversale a gruppi sociali ed etnici, laddove la sua avversaria ha lasciato freddi anche i settori di elettorato che sulla carta avrebbero dovuto esserle più vicini, come le donne, gli ispanici o i giovani. Ma l’inattesa sconfitta della Clinton – unita alla netta vittoria repubblicana in entrambi i rami del Congresso – è stata anche un giudizio inequivocabile ed impietoso dell’elettorato statunitense sugli otto anni della presidenza di Barack Obama. Dopo la rielezione del 2012 contro un evanescente candidato della vecchia guardia repubblicana come Romney, oggi la vittoria di Trump è il segno di quanto gli americani siano stati profondamente delusi dal presidente che nel 2008 aveva raccolto un enorme consenso su base personale con la sua “narrazione” fondata sul richiamo alla speranza e sulla promessa di superare i conflitti consolidati nella società americana; e che invece ha acuito le divisioni sociali e culturali interne, e ha reso gli Stati Uniti più insicuri e meno rispettati nel mondo.

La moderata ripresa economica raggiunta dopo la recessione cominciata nel 2008 è stata ampiamente “drogata” da una imponente crescita del debito pubblico, e non ha comunque evitato lo smantellamento di interi settori dell’apparato produttivo. La riforma sanitaria dell’Obamacare non ha aumentato la sicurezza sociale, ma la pressione fiscale e le ansie di lavoratori ed imprenditori. La linea di radicalismo etico sposata aprioristicamente dal presidente su un tema altamente simbolico come i matrimoni omosessuali ha umiliato e offeso la larghissima parte del paese  fedele ai costumi tradizionali e all’ispirazione religiosa cristiana. La sua strumentalizzazione a fini elettoralistici delle rinnovate tensioni razziali alimentate dalla crisi economica ha ulteriormente radicalizzato i toni dello scontento di alcune fasce estremiste della protesta afroamericana. La strategia del leading from behind adottata nella politica estera, unita alla linea intransigente di contrapposizione alla Russia di Putin, ha aggravato decisamente la situazione nello scacchiere mediterraneo-mediorientale e riportato in Europa il clima di una incombente guerra fredda.

Insomma, l’obamismo si è sempre più chiaramente caratterizzato come un progressismo radicale lontanissimo dal sentire popolare condiviso, e altrettanto distante dagli interessi nazionali americani. E una porzione sempre crescente della società statunitense lo ha considerato tutt’uno con il sentimento di declino, di abbandono, di impotenza da cui nell’ultimo decennio è stata avvolta. Per questi motivi, l’ascesa al potere di Trump  può significare soprattutto la fine di un’epoca: quella dell’egemonia, negli Usa e nell’intero Occidente, di  una cultura politica apparentemente post-ideologica, ma in realtà ferreamente allineata ad una ideologia dalle pretese stringenti e totalizzanti: la “cultura del piagnisteo”, la negazione di qualsiasi appartenenza nazionale e locale in nome del relativismo culturale e di un indistinto cosmopolitismo, il radicalismo soggettivistico e nichilistico politically correct, l’idea che la convivenza civile debba essere fondata sui desideri individuali e sull’assenza di qualsiasi radice culturale e spirituale condivisa, di qualsiasi identità forte della comunità; infine, una declinazione neopagana e antiumana dell’ambientalismo, culminante nel mito antindustrialista e declinista del global warming.

Vero è che Trump, come molti populisti di destra e di sinistra europei, si propone di ovviare agli squilibri della globalizzazione con misure che, se venissero attuate, probabilmente in molti casi li acuirebbero: come l’incremento del protezionismo economico, e un più accentuato disimpegno degli Stati Uniti dal ruolo di potenza militare globale in difesa delle democrazie liberali. I prossimi mesi e anni ci diranno se questa tendenza si concretizzerà in un’arretramento della spinta allo sviluppo  economico e dell’interdipendenza mondiale, oppure in una sua riformulazione più razionale e stabile; in un nuovo ordine mondiale pluralistico o nel moltiplicarsi dei focolai di conflitto. Ma da un punto di vista più ampio, come leader di un paese in cui il populismo non rischia di travolgere i fondamenti storici del costituzionalismo liberale, Trump può innanzitutto esercitare una spinta costruttiva decisiva per superare la lunga paralisi e l’avanzato declino culturale dell’Occidente attraverso una riaffermazione decisa del senso comunitario, della centralità dell’identità culturale, dell’indispensabile fondamento etico-religioso della liberaldemocrazia. Come il promotore, insomma, di una svolta della cultura politica euro-atlantica in direzione di società nuovamente vitali, votate alla crescita, forti delle proprie radici e non più mestamente ripiegate su se stesse in una spirale di senescenza, arrese all’ineluttabilità della propria estinzione.

di Eugenio Capozzi

Fonte: https://www.loccidentale.it

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