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Il cattolico - si dice - deve sempre «ascoltare», mai «asserire». Ma Gesù insegnava, asseriva, concludeva, esortava, ammoniva e, non di rado, sgridava. Il discussionismo petulante dei cattolici e gli ammonimenti di Paolo VI.

Chi non parla o ha paura o non crede. Il discussionismo del cattolico indeciso

scritto da: Silvio Brachetta, martedì 1 marzo 2016


Si sente spesso dire, da un certo tipo di cattolico indeciso, timido, che non bisogna prendere mai una posizione troppo netta sulle questioni politiche o sociali. Se, per esempio, a un cattolico venisse in mente di contestare pubblicamente l’insegnamento delle pratiche omosessuali nelle scuole, ne sorgerebbe immediatamente un altro a rimproverarlo, tra l’ironico e il severo, per i seguenti motivi: a) non bisogna arrivare mai a concludere qualcosa, poiché «i problemi sono ben più complessi»; b) il cattolico deve sempre «ascoltare», mai «asserire»; c) la schiettezza «contrae gli spazi di ascolto reciproco» e interrompe il «dialogo tra diversi»; d) il dialogo medesimo consiste in una «discussione» infinita sui problemi.

Né gli si può obiettare che queste sue affermazioni sono antievangeliche, per via del fatto che Gesù insegnava, asseriva, concludeva, esortava, ammoniva e, non di rado, sgridava. E i suoi discepoli a ruota. Al cattolico timido non si possono fare queste obiezioni, poiché non risponde, ma si limita a replicare secondo la consueta lista di luoghi comuni, di cui ai punti a), b), c) e d). Sempre quelli. In realtà non dialoga mai: si limita ai monologhi e alle ripetizioni.

Questo tipo di cattolico trae il proprio atteggiamento di timidezza e soggezione, nei confronti del mondo, da un’interpretazione errata della parola «dialogo», introdotta dal Concilio Vaticano II. Il teologo Romano Amerio ne ha parlato nel suo libro Iota Unum. Storie delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX (Ricciardi, 1989, c. XVI). È vero – scrive Amerio – che il vocabolo «dialogo» è «del tutto incognito e inusitato nella dottrina prima del Concilio», ma è anche vero che Paolo VI ne ha indicata la corretta interpretazione, nell’Omelia del 23 giugno 1968: «Il Vangelo ci ammaestra che non basta avvicinare gli altri, ammetterli alla nostra conversazione, confermare ad essi la nostra fiducia, cercare il loro bene. Bisogna, inoltre, adoperarsi affinché si convertano; occorre prodigarsi perché ritornino; è necessario recuperarli all’ordine divino, che è uno solo: quello della grazia, della fede, della Chiesa, della vita cristiana».

Paolo VI parla dunque di un dialogo che ha per fine la conversione dell’interlocutore. Volere, infatti, il bene degli altri è comunicare loro la verità e non nasconderla nell’adulazione. Come ricorda Amerio, Paolo VI aveva dedicato al tema del dialogo anche la terza parte dell’enciclica Ecclesiam suam (1964), in cui equiparava il «dovere di dialogare» col mondo al «dovere di evangelizzare» il mondo. Il dialogo poi – scrive Amerio – non ha per oggetto la «ricerca», ma la «confutazione» dell’errore, poiché «la parola della Chiesa non è parola d’uomo», ma è «rivelata» da Dio.

Tutt’altra cosa è il senso del dialogo imposto e frainteso dal modernismo cattolico. Il dialogo in senso moderno «ha per base la perpetua problematicità del soggetto cristiano, cioè l’impossibilità di fermarsi in qualcosa che non sia problema». Viene così negato – continua Amerio – «il gran principio riconosciuto in logica, in metafisica e in morale», per cui «anánke sténai» («è necessario fermarsi»). Ne viene fuori, allora, la frenesia per un continuo e inconcludente «discussionismo» petulante, che si realizza tramite «convegni, incontri, commissioni, congressi», i quali non portano a nulla, se non a «rimettere tutto in problema» e alla ricerca perpetua del compromesso.

Certamente vi è un dialogo continuo tra le persone, ma è inutile e addirittura pericoloso per la salvezza eterna confondere «il dialogo in materia naturale» con il «dialogo di fede soprannaturale». E il dialogo di fede – afferma Amerio – è «inteso a dimostrare un vero». Non va dimenticato, inoltre, che non tutti hanno la medesima capacità di parlare di qualsiasi cosa e con tutti. Nessuno, a questo proposito, può essere «certo che la propria forza intellettuale sia pari alla forza delle obiezioni che si muovono contro». Nondimeno, «la verità del cattolicesimo non si raccoglie sinteticamente, come un composto di verità particolari, e non implica un’intera soddisfazione intellettuale». Il cattolico, quindi, è tenuto a parlare, senza timore alcuno e per quanto ne sa, della verità che conosce. Chi non parla, invece, o ha paura o non crede.

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Tags: Concilio Vaticano II, dialogo, Paolo VI, Romano Amerio

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2 risposte a “Chi non parla o ha paura o non crede. Il discussionismo del cattolico indeciso”

  1. Ernesto ha detto:
    marzo 1, 2016 alle 8:23 pm

    Anche chi non è in grado di snocciolare termini teologici, o citare passi biblici a memoria,può comunque testimoniare ciò che Dio ha fatto nella sua vita,per questo è importante che sappiamo dar ragione della nostra fede chi in modo più semplice chi con argomentazioni più ricche, l’importante è che siano credibili,autentiche

    Rispondi
  2. Silvio Brachetta ha detto:
    marzo 4, 2016 alle 9:48 am

    Certamente Ernesto. Questo è proprio uno dei sensi dell’articolo.
    La verità non ha a che fare con l’erudizione, né con la quantità di cose conosciute. Chi sa tre cose o mille è nella verità quando sa fare la giusta sintesi di quello che sa.
    La veneranda signora, quindi, che conosce solo il santo Rosario e lo recita ogni giorno conosce di Dio quanto e più di un teologo. Così anche il teologo San Tommaso non era nella verità perché sapeva molte cose, ma perché le ha sapute usare secondo la volontà di Dio.

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