Chi ha ucciso l’amore? Ristampato un saggio di Denis De Rougemont da non perdere




Oggi, nonostante gli evidenti legami del passato che ancora permangono (si pensi solo alla bandiera nazionale o allo storico corpo militare di protezione del Pontefice, le Guardie Svizzere) non va molto di moda associare la Svizzera al Cristianesimo. Ma non è stato sempre così: a parte i citati rimandi c’è stato veramente un tempo in cui la Svizzera ha espresso il meglio dello spirito cristiano. Autori come Gonzague de Reynold – si cui ci siamo già occupati su queste colonne – o Von Haller hanno per esempio scritto pagine capitali in passato sul rapporto tra fede, politica e Stato. Un terzo nome di cui ci vorremmo occupare oggi è lo scrittore e pensatore francofono Denis De Rougemont, di cui sono ricorsi da poco i 110 anni dalla nascita. Figlio di un pastore protestante a sua volta discendente da famiglia aristocratica, nato nel cantone di Neuchatel, De Rougemont è noto ai più soprattutto per due cose: gli studi sul federalismo europeo e quelli sull’idea e la pratica del concetto di amore in Occidente che offrì anche il titolo all’opera in assoluto più significativa della sua produzione: L’Amore e l’Occidente, appunto, che tra gli specialisti della materia è ormai considerato alla stregua di un classico. Tradotto per l’Italia da un altro autore cristiano non particolarmente fortunato in vita, Luigi Santucci, il saggio di De Rougemont è in realtà una lettura obbligatoria per chiunque si occupi di evangelizzazione e catechesi in riferimento al matrimonio e alla vita di coppia. Il motivo è presto detto: si tratta di un’opera praticamente unica nel suo genere, in cui analizzando la trama delle più importanti storie d’amore della letteratura europea si ripercorre – sulla base dell’idea che la letteratura altro non è che lo specchio parlante della cultura della società civile del proprio tempo – l’evoluzione sociale del sentimento amoroso, delle sue leggi e della sua morale con un attenzione e una cura per i dettagli più insospettabili che lascia francamente stupefatti. Come pure la convinzione che sia stata per prima l’eresia catara di sapore gnostico, a sua volta legata a esponenti della lirica trobadorica romanza tardo-medievale, a mettere in questione per prima la concezione occidentale dell’amore che fino a quel momento si era affermata anche e soprattutto per merito della civilizzazione cristiana. Fu infatti innanzitutto con il Cristianesimo che il matrimonio giunse ad essere rivestito di profondissimi significati sociali e civili, i quali apparivano poi allo stesso tempo come la più coerente realizzazione della vocazione individuale della singola persona. Se si vuole, da questo punto di vista, la parola ‘istituzione’ in riferimento al matrimonio per l’Autore appare persino troppo modesta: educando all’autentica pedagogia amorosa, custodendo nel suo seno la nascita della vita e l’educazione dei figli, il matrimonio è stato per secoli il monumento simbolico più alto della società europea. Per sapere quando e come le cose sono cominciate a cambiare De Rougemont chiama in causa il mito di Tristano e Isotta che per primo diede autorevolezza all’adulterio entrando potentemente nell’immaginario collettivo del pubblico europeo, alfabetizzato e non. Da allora in effetti saranno tante le pagine della letteratura, e non solo (si pensi al rifacimento omonimo dell’opera lirica di Wagner), a trasmettere ai posteri trame simili, o analoghe, incentrate tutte su un’idea infelice dell’amore umano, il più possibile tragica, fatta di passione e tradimento dando così una nuova ‘dignità’ pubblica al peccato in quanto tale.
In realtà De Rougemont si spinge persino oltre e afferma che sia stata magna pars della letteratura della modernità a cambiare i canoni fondamentali dell’etica amorosa in Occidente. Naturalmente, non da sola, ma è un fatto che – ad esempio – la nuova concezione dell’amore come irrazionalità pura, incontrollata e incontrollabile, e dunque per forza di per sé antitetica al matrimonio, trovi nelle opere più celebri e fortunate della narrativa mitteleuropea degli ultimi secoli ampia risonanza. Si pensi a I dolori del giovane di Werther di Goethe, ad esempio. Un romanzo epistolare che, per quanto breve, alla sua uscita mandò veramente in tilt un’intera generazione al punto che – anche se oggi pochi lo ricordano – nel giro di pochi mesi in Germania si registrarono decine di suicidi: ragazzi innamorati respinti, perlopiù, che si erano dati la morte perché incapaci di sopportare il dolore di un amore giovanile rifiutato. La cosa incredibile fu che quando furono ritrovati i loro corpi, molti di loro in tasca avevano ancora proprio quel libretto: I dolori del giovane Werther, appunto, di cui avevano personalmente messo in atto nella vita reale – la loro vita – fedelmente la trama, fino al terribile suicidio finale. Beninteso non si vuole qui incolpare Goethe (che peraltro prese poi le distanze da certe letture della sua opera) di alcunché: semplicemente riflettere, e far riflettere, su due cose poco considerate nella vicenda: la prima è la potente influenza che le pagine più riuscite della letteratura di successo possono talora avere sul pubblico, nel bene o nel male, indifferentemente, suscitando atti di emulazione di vario tipo. La seconda è che se Goethe potè mettere nero su bianco la storia di Werther incontrando un successo di seguito clamoroso fu proprio perché – tra le altre cose – quando lui la scrisse, la sua Germania era già piena di tanti giovani ‘Werther’ in carne e ossa, cosicché più che essere un sinistro presagio di quel che sarebbe accaduto il suo romanzo fu in realtà una fotografia istantanea del canone amoroso occidentale che stava iniziando allora ad andare in pezzi e le cui conseguenze ultime nessuno poteva prevedere. Sarà così a ben vedere anche nella successiva epoca romantica (una sorta di 1968 del XIX secolo, come qualcuno l’ha ridefinita) che narrativamente celebrerà con ancora più forza la rottura dei legami civili e sociali come una tappa necessaria verso un avvenire di libertà e giustizia. Di pari passo con la secolarizzazione, la crescente diminuzione della fede, la sfiducia nella ragione e il disprezzo per la pratica della virtù, si afferma così sempre più rapidamente una concezione di amore inteso come eros e pura istintualità, l’unica e oscura forza da opporre – e siamo all’alba del Novecento – citando Freud, all’istinto di thanatos. A chi nasce allora pare allora che non ci sia nulla di più distante dall’amore che proprio il matrimonio di cui ormai anche la logica più evidente e il linguaggio universale vengono messi in discussione. Di fatto, il corteggiamento – almeno per come veniva inteso tradizionalmente – sparisce, o quasi, dall’intero quadro sociale condiviso dell’amore in cui infine anche la sessualità assume una dimensione indipendente e autonoma da qualsiasi etica: invece di essere l’esito conclusivo naturale della maturazione dell’amore umano questa diventa anzi l’introduzione a un legame di coppia che diventa sempre più sentimentalistico, e quindi umorale, privo di qualsiasi certezza e stabilità se non quella dell’incertezza stessa, per dirla con un gioco di parole. Si arriva così finalmente all’oggi in cui, nonostante tutte le tragedie che ha provocato e provoca, l’ethos amoroso continua ad essere quello soggetto al volontarismo più anarchico, non definito, né definibile, totalmente in balìa di pulsioni cieche e stati d’animo passeggeri alla continua ricerca di non si sa bene che cosa, se non l’affermazione del proprio narcisismo egoista, o di quello altrui, a seconda dei casi. Un amore ‘patologico’, come pure si dice a volte, che tanto è più patologico e tanto più attrae: se un tempo era stata l’etica cavalleresca a rendere l’amore un atto sociale nobile, e anzi il più nobile da conquistare, ora è la trasgressione per la trasgressione spinta sempre un gradino più in là a fornire i contorni dell’ethos amoroso che si vuole radicalmente privo di qualsiasi galateo, legge o regola che sia. E molto altro ci sarebbe da dire, questo è solo un assaggio: De Rougemont dice molto di più e molto meglio di noi, chiaramente. Per questo, a chi non l’avesse già in biblioteca, ci sentiamo di consigliarlo caldamente, come facciamo con i classici. Perché anche quest’opera, a tratti esigente nella lettura e nelle dottissime citazioni proposte a piè di pagina, vale quanto un classico: da leggere e rileggere con pazienza, per capire come eravamo, come siamo e come riprendere, almeno in parte, quella via verso la bellezza e l’eternità che abbiamo smarrito credendo – ma anche questa, a ben vedere, dopotutto è una vecchia storia – che qualcuno, in fondo, ne sapesse più di Dio.

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