«Essere un’anima. Essere un’anima viola»: in questa frase, pronunciata dal “Caravaggio” del geniale e visionario regista inglese Derek Jarman, è racchiusa l’essenza del rapporto tra il pittore e il mondo dei colori. Più precisamente, di un rapporto speciale, che non tutti gli artisti hanno posto al centro della loro ispirazione.
I colori hanno un’anima. Quando hanno un’anima significa che non riempiono semplicemente la superficie esterna delle cose, ma ne catturano e ne liberano l’essenza invisibile. Pensiamo ai colori febbrili e incandescenti di Van Gogh, o, per citare uno dei nostri pittori a mio avviso più ispirati, ai colori “sublimati” di Vito Timmel (Vienna 1886 – Trieste 1949).
Giovedì 10 aprile presso la Stadion di Trieste è stata messa all’asta, accanto ad altri nomi celebri della pittura della nostra città, la splendida “Esplosione d’estate” (1938) di Vito Timmel. Non è questa la sede per una ricostruzione biografica ed estetica di questo tormentato artista. Tanto più che già da solo questo dipinto basta a farci entrare nelle profondità della sua ispirazione. Ogni artista ha una “sua” opera, quella in cui egli ha toccato il vertice, ha condensato più che nelle altre opere il suo essere, la sua ricerca, il suo stile, il suo tormento.
Insofferente a scuole, a dettami accademici, a regole classiche, Timmel è stato un audace sperimentatore e inventore. Sperimentatore di linguaggi in quanto inventore di mondi. Quali mondi? L’“Esplosione d’estate” è la mappa in colori di uno di questi mondi possibili. Non certo quello che vediamo e che viviamo quotidianamente. Siamo prossimi alla Pasqua, la celebrazione della vita e della rinascita, dell’eterna novità. La luce soffusa e pulsante che si irradia dal fogliame degli alberi e dai muri della chiesetta e delle piccole case di questa “Estate” di vitalità dirompente eppure dolcissima, è una luce sottile, spirituale, “pasquale”. Vi è in essa l’infinita tenerezza dell’infanzia, l’effusione quasi materna del creato che riposa nella mano di Dio.
E non è un caso che ai piedi degli alberi, rigogliosi e brillanti come quelli del Paradiso terrestre, vi sia una croce che guarda al villaggio. Il rosa quarzo dei muri e il riflesso dorato del tetto della piccola chiesa richiamano l’umanità e la divinità di Colui che porta a fioritura tutte le cose, in un’estate senza tramonto. I colori di questo quadro di Timmel non si possono dire; bisogna vederli, toccarli, respirarli, sentirne il profumo.
Attraverso la scomposizione della pennellata in infiniti piccoli punti, le forme e i colori vengono smagliati, dilatati, resi duttili e leggeri, come colti nel loro intimo e segreto pulsare che è ancora mondo ma già non è più mondo. È la creazione sull’orlo del sacro balzo, al principio della sua trasfigurazione. Gli alberi, le case, il cielo, i bianchi monti all’orizzonte, sono vivi, si muovono, sussurrano, sembrano raccontarsi una gioia segreta, condividere un evento misterioso e stupendo. Forse Timmel, il visionario cercatore dell’anima dei colori e delle forme, ha scritto con questo quadro un capitolo sconosciuto del suo Diario, il “Magico taccuino”. Pensieri, sensazioni, esperienze vissuti nel periodo di internamento nell’Ospedale psichiatrico della nostra città dove l’artista rimase fino alla morte avvenuta nel 1949. Come può definirsi “magico” — termine evocatore di colore, gioco, allegria e stupore — un diario scritto negli inferi del dolore e della solitudine? Forse questo ha cercato Timmel lungo l’intero arco della sua vita. L’allegria, lo stupore infantile, il gioco, il colore, la leggerezza che è propria solo dell’anima e che unicamente lo Spirito ti dona. La presenza di Dio in tutte le cose. Il Paradiso che già qui si affaccia sui deserti del mondo e vi fa piovere, bianca e delicata come neve, la manna che un giorno ci renderà sfolgoranti ed eterni.
Vi è un’aura sacra nei dipinti di questo fanciullo che faceva poesie con i colori. Tanto più nella sua “Esplosione d’estate”, questa chimera meravigliosa, questo regno di pace e di letizia che dilata l’aria e i polmoni. I suoi colori non vanno solo visti, ma ascoltati. Essi “parlano”, bisbigliano in un fruscio come di brezza, in un silenzio da cui ci sentiamo irresistibilmente attratti ad ascoltare con attenzione sempre più vigile, più desta, più speranzosa, quasi potessimo avvertire il passo di Dio che passeggia nel Giardino all’alba del mondo.
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