Breve storia della guerra di Castro alle chiese cubane




Quando nel 1959 Fidel Castro divenne primo ministro, annullò subito le elezioni libere – “Elezioni? A cosa servono?” – e sospese la Costituzione. Nel 1976, avrebbe reintrodotto una nuova carta costituzionale ispirata a quella dell’URSS. Nel 1960 gli ultimi rappresentati dell’opposizione, politici, o militari, vennero arrestati. Qualcuno fucilato. Fu allora che si assistette alla prima grande ondata di partenze da Cuba: cinquantamila persone della classe media o tra gli oppositori politici espatriarono. A Cuba la responsabilità è sempre stata collettiva, e la punizione altrettanto: le famiglie di dissidenti e prigionieri hanno pagato a caro prezzo l’impegno politico dei loro parenti; i figli non possono accedere all’università e i congiunti perdono il lavoro. Le celle disciplinari cubane furono battezzate “tostapane” per via del caldo insopportabile che c’era dentro, sia d’inverno che d’estate. A Pinar del Rìo, Castro fece costruire stanze per gli interrogatori e celle sotterranee. E per le donne fatte prigioniere non c’era scampo dal sadismo delle guardie. Per rieducare quanti erano ostili al regime comunista, la prigionia prevedeva digiuni che finivano in due modi: con la “conversione” o con la morte, tertium non datur.

L’Occidente complessato ha fatto di Fidel Catro una figura romantica. Con quella sua tuta grigio-oliva, gli stivali da combattimento, il sigaro e la barba nera e folta, Fidel divenne subito il riferimento iconico per il mondo della sinistra soprattutto europea. Un “autonominato” e feroce presidente a vita che, con un tratto di penna, vietò la libertà di parola, la libertà di riunione e di stampa libera. A L’Avana non era una novità trovare vuoti gli scaffali delle farmacie, eppure il regime esaltava i benefici del welfare sanitario gratuito per tutti. Così come vivere in appartamenti privi di servizi igienici è stato, in alcuni casi la è ancora, la norma. Quando nel 1980 Mosca inviò enormi sussidi a Cuba (cibo, auto, carburante …), l’isola riuscì a godere di un breve momento di ‘benessere’. Per il resto, miseria. Con il collasso dell’Unione Sovietica, Cuba è sprofondata nel burrone più nero.

Cristiani e cattolici sono stati i nemici preferiti di Castro, un cancro da debellare dall’isola. Nel maggio del 1961, tutti i collegi religiosi furono chiusi e le loro sedi confiscate. Fasciato nella sua uniforme, il Lìder Màximo tuonò: “i parroci falangisti si preparino a fare fagotto”. Un avvertimento non a titolo gratuito: a settembre dello stesso anno, centotrentuno fra sacerdoti diocesani e religiosi vennero espulsi da Cuba. L’opera di emarginazione delle istituzioni religiose sarebbe continuata per decenni in tanti modi, ad esempio lasciare liberi i cubani di professare la propria fede, salvo poi dover subire ritorsioni quali il divieto di accesso all’università e alla carriere amministrativa. La repressione dei “dissidenti” non ha mai incontrato scrupoli. Per trent’anni, a Cuba, il Natale è stato abolito. Solo nel 2012 è stato ripristinato il Venerdì Santo come festa civile. Con lui ci sono stati sempre più aborti che nuovi nati. Nel 1998, quando San Giovanni Paolo II durante l’omelia all’Avana pronunciò tredici volte la parola “libertà”, la folla con le lacrime agli occhi scandiva “Libertad! Libertad!”.

Ma la libertà, ora come allora, è ancora un’utopia. Cuba con Castro è diventata il simbolo del comunismo del sud America. Una Disneyland marxista dove l’unica attrazione è tutt’ora la miseria. Il numero esatto delle cosiddette “morti politiche” è impossibile da definire. Ma quello che sappiamo è che rispetto all’esecuzione Castro aveva una preferenza, la fucilazione. Uno sbruffone, un dittatore violento, un fomentatore dell’odio, un serial killer che ha abusato dei diritti umani, questo è stato Fidel Castro. Un uomo che è riuscito a prendersi gioco di dieci presidenti degli Stati Uniti che si sono succeduti nella stanza ovale. Definì la lotta al terrorismo islamico di Bush, una “guerra contro i fantasmi che gli americani non sanno dove trovare”. E quando Obama ha incontrato il fratello nel 2014, nell’ambizione di ripristinare le relazioni diplomatiche con L’Avana, Fidel ha poi tenuto un discorso in cui prendeva le distanze dalle aperture di Barack. Del Lìder Màximo si erano innamorati Hemingway, Sartre, Màrquez. Ma del sangue e della disperazione di cui ha rivestito le strade di Cuba, gli ‘intellos’ cinghia di trasmissione del regime non hanno mai scritto una parola.

Sulle sue condizioni di salute, che nel 2008 lo hanno portato a “dimettersi”, è sempre calato il silenzio di stato. E chissà se e per quanto tempo la sua morte è stata tenuta nascosta. Sono molto più di cinquecentomila i cubani passati per il gulag di Castro. Una popolazione che ha vantato il più alto tasso di carcerazione al mondo. L’esodo verso la Florida fu una realtà che il mondo scoprì solo negli anni Ottanta. E che ha coinvolto più del 20% (sono quelli che sono riusciti a scappare) della popolazione. Si scappava in tutti i modi, anche sulle zattere. Era meglio morire in mare che restare un giorno di più sull’isola. Lo si comprende dalla gioia di chi nella mattinata di sabato ha invaso le strade di Miami per festeggiare la scomparsa del dittatore. Non è qualcosa di macabro o irriguardoso. A quegli uomini, quelle donne, quei ragazzi che sventolavano le bandiere di Cuba, Castro ha distrutto la vita per sempre, decimando le loro famiglie e costringendoli ad una fuga disperata dalla propria terra. Il senatore della Florida, Marco Rubio, ha ricordato che “purtroppo la morte del dittatore sanguinario non significa libertà per i cubani: il dittatore è morto, ma non la dittatura”.

di Lorenza Formicola

Fonte: https://www.loccidentale.it

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *