A proposito di Stelio Mattioni




L’idea di rilanciare uno scrittore triestino di grande talento come Stelio Mattioni (Trieste 1921-1997) scegliendo il linguaggio facile e accattivante del fumetto – mi riferisco alla pubblicazione a puntate del romanzo “Il richiamo di Alma” sul nostro quotidiano — la dice lunga sull’evoluzione del gusto dei lettori di oggi. Esercitati sul linguaggio più immediato e facile delle immagini, i lettori si vanno sempre più disabituando al libro cartaceo e alla comunicazione scritta. Quest’ultima, per sua stessa natura, esige infatti maggiore attenzione ed impegno. Sembra che neanche la progressiva semplificazione dello stile, spinta a volte sino alla nudità e alla povertà di un comunicato telegrafico, sia servita a garantire un pubblico folto e nutrito di lettori al caro vecchio libro.

Senza addentrarci ora in questa complessa e variegata questione, vogliamo dire qualcosa sull’autore del “Richiamo di Alma”, uno degli scrittori triestini, come sopra premesso, più inventivo, originale e profondo. Mattioni si distingue soprattutto per la particolarità della sua ispirazione. Con la sua lunga serie di romanzi pubblicati in gran parte da Adelphi — “Il re ne comanda una” (1968), “Palla avvelenata” (1971), “La stanza dei rifiuti” (1976), ma soprattutto con “Il richiamo di Alma” — Mattioni ha rielaborato in una forma molto personale e affascinante le inquietudini, gli aneliti spirituali e le disposizioni immaginifiche di scrittori come Buzzati e Kafka. La realtà nei suoi romanzi non è mai un contesto di vita determinato, conoscibile alla luce dell’analisi razionale, ma una sorta di fondale onirico dalle forme fluttuanti ed arcane. Senza mai approdare ad una ricerca propriamente religiosa dai contorni ben definiti, Mattioni nelle sue narrazioni indugia sulla soglia che separa il mondo visibile da quello invisibile. Egli assomiglia ad un uomo incerto, inquieto e pensoso che abbia scoperto nelle profondità del vivere un misterioso portale dietro cui si avvertono fruscii, voci sommesse, palpiti inafferrabili, segno di una vita oltre la vita che si nasconde e sempre si sottrae. Come già Buzzati nei suoi splendidi racconti, anche Mattioni non varca mai il limen: rimane in ascolto, lasciandosi penetrare dalla voce segreta delle cose, dalla loro eco leggera e perturbante che scardina ogni certezza materiale. Qualcosa là dietro si muove, parla, agisce, forse determina tutto ciò che avviene al di qua. Il linguaggio di questa presenza sconosciuta è quello del simbolo, dell’allusione, del cenno velato e ambiguo. Le sue espressioni ci ricordano i segnali che provengono dal “Castello” di Kafka, questa geniale e spaventosa allegoria di una realtà invisibile osservata e sentita alla sola luce di una cruda e spietata ragione analitica. Se è limitante esplorare il mondo che ci circonda alla sola luce della ragione, adoperare invece questa stessa nostra facoltà per orientarci nell’invisibile genera spesso fantasie spaventose e incontrollati timori. L’ignoto senza volto, che devasta l’angosciante metafisica di Kafka, nei romanzi di Mattioni, grazie all’influsso dei più “amichevoli” fantasmi di Buzzati e alla lezione più ironica e concreta del nostro Svevo, si stempera in un’inquietudine sottile e surreale che non sgomenta né atterrisce, ma comunque allude ad un oltre, ad un fondale sconosciuto, ad un di più rispetto alla nuda materia regolata da leggi meccaniche e puramente umane.

Ogni sua pagina è come una pergamena su cui più mani abbiano scritto, cancellato e poi scritto di nuovo, lasciando una filigrana di segni, simboli e immagini che ci interrogano e ci stupiscono.

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