40 artisti cantano l’Isola d’oro




Un gioiello antico, che il boom economico del Dopoguerra ha cercato, spesso con risultati avvilenti, di trasformare in una località turistica con i requisiti di altre stazioni balneari molto più recenti e a passo con le mutate esigenze di nuove, spesso sciocche, forme di divertimento.

Eppure, nonostante questi “aggiornamenti”, Grado è rimasta sfolgorante, bella e poetica anche dietro questa patina di villaggio turistico, come dimostra l’esposizione “Aspetti gradesi”, che narra i mille volti dell’isola del Sole immortalati dal pennello e dall’obiettivo di oltre 40 artisti (la mostra è visitabile, presso i locali circoscrizionali di via Pradamano 21 a Udine, fino al 7 marzo il lunedì dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 18, il martedì e giovedì dalle 15 alle 18, il venerdì dalle 9 alle 12. Ingresso libero. Per informazioni: Puntoinforma tel. 0432 1273717, via Savorgnana 12 www.comune.udine.it)

Certo, la Grado di oggi non è più né potrebbe esserlo, la Grado all’alba dei primi insediamenti turistici tra ‘800 e ‘900, quando ancora l’isola d’oro e turchese brillava incastonata nel cuore dell’Impero. Per i malinconici e cagionevoli borghesi e aristocratici del Nord, Grado rappresentava un bagno rigeneratore, un’oasi benefica di sole e di vento, ove riposare e riconciliarsi con se stessi. Grado ridonava la salute perduta, restituiva un bell’incarnato vermiglio ad anemiche bambine precocemente malinconiche, accelerava con un ritmo più gioioso e libero i cuori di tante signore e signorine che busti, trine e obblighi famigliari troppo ristretti andavano derubando di fantasia e voglia di vivere. Grado rinverdiva l’ingegno degli artisti, sollecitava la fantasia e le speculazioni finanziarie di uomini e donne dotati di ingenti patrimoni da investire, richiamava turisti curiosi, cultori della bellezza, amanti della natura e della vita all’aria aperta.

Alcune vestigia di questo glorioso momento, come alberghi, pasticcerie e caffetterie, rimangono ancora oggi e spirano anche nei giorni nebbiosi dell’autunno e nelle sere fredde d’inverno un incanto inattaccabile dal tempo.

Il cantore di Grado, il poeta Biagio Marin, imparò dall’atmosfera, dai colori e dai profumi della sua isola quel raccoglimento silenzioso e stupito che riversò nelle sue liriche. Anche gli anni trascorsi a Trieste nella biblioteca delle Assicurazioni generali rivelano, nello spirito con cui Marin svolse in modo puntuale e appassionato il suo lavoro, il grado di sensibilità e di ardore da lui raggiunto contemplando il cielo, il mare e le sabbie sempre mutevoli ed esercitandosi ogni giorno a leggere nel palinsesto della natura i messaggi cifrati dell’Invisibile.

Nei suoi “Diari” infatti e nelle sue “Lettere” spesso Marin parla di Grado indirettamente, come in filigrana, narrando con amorevole cura le ore trascorse nel silenzio della biblioteca, estasiato da cose comuni ma belle, come le grandi librerie le cui vetrate riflettevano la luce del sole nei diversi momenti della giornata, oppure il ripiano ove appoggiava i volumi e svolgeva le sue ricerche: perfino il legno delle scrivanie appariva piacevole al tocco con i suoi intarsi e la sua consistenza. Solo l’anima di un poeta, accompagnato nella sua evoluzione interiore dall’atmosfera di luoghi quasi incontaminati dal degrado moderno delle grandi città, può dare corpo e sostanza al tempo spesso ordinario del quotidiano lavoro. Il mare, la sabbia, gli animali, il cielo e il sole diventano una palestra ove addestrare all’ascolto e al canto l’intelligenza e il cuore.

Le sue poesie sono una lanterna magica le cui figure sono tratte dall’isola d’oro: la sabbia, le maree, le alghe, le bianche nubi del cielo sospinte dal vento come candidi liocorni in fuga, gli uccelli abitatori delle secche che tracciano i loro misteriosi codici nel cielo limpido. Marin trascorreva delle ore immerso in questa natura dal sapore irripetibile, immaginando di sorprendere tra le acque nei momenti di bassa marea quei tesori sommersi di antiche basiliche di cui si narravano fascinosi racconti. Si dice infatti che le chiese delle origini che sorgevano a Grado nei secoli siano state sommerse in gran parte dall’acqua e che giacciano ancora al fondo del mare, in attesa di essere ritrovate, come in una favola.

L’amore che la buona borghesia e la nobiltà austriaca portarono a quest’isola, facendone il luogo privilegiato delle loro villeggiature, è un fatto di costume e di cultura che fa affiorare lo spirito inquieto e sensibile di un mondo ai suoi ultimi palpiti di vita.

È un mondo che si è lasciato alle spalle tutte le certezze e le convinzioni dei Padri, che ha perduto tutti i sogni alimentati dal positivismo quali la possibilità per l’uomo di conoscere il reale e di dominare la natura. I grandi orizzonti ordinatori delle leggi della vita in costellazioni di senso ben governate e chiare sono tramontati. Nei cuori dominano lo smarrimento, la paura dell’ignoto, un senso penoso di fallimento, sensazioni che domineranno tanta letteratura del primo Novecento, in particolare la narrativa di Thomas Mann, uno dei cantori più avvertiti di questa crisi.

Come uccelli morenti che tentano di aprire le ali in un ultimo libero volo, gli uomini e le donne che trascorsero le loro vacanze a Grado negli anni della Belle Époque — anni sontuosi ma fatiscenti e soffocanti come certe serre sovraccariche di fiori carnosi e piante lussureggianti dal profumo troppo pungente e indiscreto —, iniziarono ad avvertire nell’anima oscuri presagi di tempesta e vennero qui a cercare quel sole e quella spontanea gioia di vivere di cui l’esistenza si andava facendo sempre più avara. Anche se il pretesto di questi viaggi era nella maggior parte dei casi il recupero della perduta salute fisica, in realtà si cercava un cielo più grande e profondo del cielo azzurro delle prime giornate di primavera sull’isola.

La stessa opulenza e sicurezza conseguita nel corso dell”800 dalla borghesia affarista, lanciata in una sfrenata corsa all’accaparramento di beni nonché di titoli nobiliari, stava diventando ragione di un impoverimento di fini e di senso che nessuna fede sembrava avere più la forza di combattere.

Un intimo tormento scavava, come una goccia che corrode la pietra, una ferita profonda nell’uomo durante gli anni che precedettero lo scoppio della Grande Guerra, quasi la stessa aria respirata si stesse impregnando di un acre sentore di fiori appassiti e di morte.

Vi è una forte contrasto tra l’aspetto solare e ridente di Grado e lo spirito di tutte quelle persone che la visitarono negli anni in cui la fine dell’Impero aveva già cominciato a corrodere dall’interno un mondo falsamente folle e svagato. Uno spirito stanco, che nella bellezza e nei “paradisi artificiali” dei suoi riti esteriori azzardava un estremo tentativo di restare a galla.

Nonostante quel mondo sia tramontato, l’isola d’oro è sempre lì, forse consumata e snaturata da nuove forme di turismo fatte di divertimento e animazione da spiaggia, eppure immutabile nella sua aura antica. Il problema, in fondo, è più quello della nostra capacità di amare ancora e di capire il fascino e il valore di questo luogo, così come lo amava e lo capiva Marin, che dalla sua isola trasse ogni cosa, anche il talento di invecchiare saggiamente e di far fronte al male di vivere che, anche lui come tanti altri della sua tormentata generazione — con evidenti strascichi che arrivano fino a noi — aveva troppo spesso “incontrato”.

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