Una vita a 360° – Incontro con Piervalerio Reinotti




Sabato, nove del mattino: al metal detector due guardie sbadigliano la loro noia, il Palazzo di Giustizia è puro silenzio. Nel corridoio del primo piano, reso magazzino dai lavori in corso, nemmeno un’anima. Solitudine e provvisorietà mi disorienterebbero se un magistrato non mi venisse incontro per condurmi nella sua ampia stanza, ricca di luce e di libri. L’ambiente è arioso e ordinato e le pratiche impilate parlano di fatica smaltita con metodo; la dedizione nel lavoro e negli hobby appartiene allo stile di vita del mio ospite che, immancabile, la domenica anche suona durante una Messa a Roiano.
Giurisprudenza, musica e famiglia sono i riferimenti costanti nell’esistenza di Piervalerio Reinotti, magistrato da 35 anni: professione scelta per reagire al padre che lo vorrebbe chirurgo. Oggi riconosce l’attenzione paterna; Pier, infatti, prova da sempre viva ammirazione per la manualità specializzata: quella che in diversi campi, dall’ebanisteria alla musica e alla stessa chirurgia, realizza un progetto difficile, frutto di naturale predisposizione ma anche di pazienza e d’autocritica.

Non a caso Piervalerio è un polistrumentista che insegue il suo “Bello” musicale con pianoforte, flauto, violino, sassofono, violoncello e clarinetto. «Lo strumento ha un valore educativo — dice — insegna che non ci sono scorciatoie, valorizza la lenta (anche noiosa) acquisizione ed evidenzia come la fisicità goda di una sua propria memoria: cose che si sono perse nella nostra società, inquinata dalla troppa velocità». E mentre i figli Silvia e Carlo studiano violino al Conservatorio, lui, interprete amatoriale, è convinto che il modo migliore di fare musica sia proprio il suo; e la crisi economica attuale, le orchestre in disfacimento e le stagioni operistiche zoppicanti gli danno buone ragioni per crederlo.

L’«artista per diletto» si sottrae alla competitività, s’apre a collaborazioni più varie e stimola amicizie coinvolgenti. È così che dal sodalizio con l’amico Roberto Marzi nascono operine leggere e satiriche come “Lo stufato si è stufato” e “Amori impossibili”. Modi per evadere, anche, da un impegno lavorativo spesso frustrante: «La giurisdizione penale corrisponde sempre meno a quello che dovrebbe essere il suo scopo. Sentenze fittizie, pene indultate, decisioni non nel merito, durata del processo, mancato rimpiazzo del personale in quiescenza, ripensamento di normative, opinabile rapporto tra giustizia ed informazione… Oggi viene rispettata la formalità, non lo spirito della legge: pestiamo l’acqua nel mortaio». E la riflessione si estende a quelli che non vuole definire “imputati” ma “clienti”, espressione, comunque, di un diffuso malcostume: «La gente provvede da sola ad assolversi, non mi pare senta il reale bisogno della Confessione, mancano segnali di ravvedimento, il 90% delle linee di difesa è tristemente prevedibile (“Ho rubato ma c’è chi rapina”)». “Delitto e castigo” e la catarsi dalla colpa proposta da Dostoevskij oggi sono mera letterarietà.

«Nel mio lavoro colgo schizzi di vita, baluginii di quella “Commedia umana” che tanto attraeva Honoré de Balzac; i volti che mi rimangono impressi divengono personaggi dei miei gialli (genere scelto perché vicino alla mia professione)». Ma Reinotti lascia volentieri i suoi libri per deviare verso i messaggi d’equilibrio proposti dalla classicità pagana come “Lettere a Lucilio” di Seneca e riflette fra sé e sé: «Soprattutto non siamo in grado di capire l’accelerazione che ha avuto la società».

Nel tempo è cambiato il modo di assolversi? «Sì: trent’anni fa il reo si difendeva dicendo “anche gli altri lo fanno”. Oggi contesta direttamente la norma sostenendo che “rubare non è un reato”. L’insofferenza per le regole fa crollare i valori di riferimento». In questa società individualista Reinotti apprezza ancor più il lavoro assiduo di tanti umili sacerdoti e di laici volonterosi che si dedicano al doposcuola ed al servizio nella parrocchia: ottimo modo per coinvolgere i giovani in un sano confronto. E, opportunamente, cita il Corano: «Spazza davanti alla tua casa e tutta la città sarà pulita».
Nel sorriso enigmatico di Piervalerio si affaccia un ricordo: «Mio nonno mi raccontava che un tempo, a Torino, si usava portare gli scolari in visita al Cottolengo, così che si rendessero conto di quanto fossero fortunati a godere di buona salute, dell’affetto familiare e della loro casa». Nell’insegnamento duro ma vero si ricordava che la gratitudine è il primo gradino dell’umiltà e della consapevolezza.
A conclusione dell’incontro vorrei scattargli una foto col mio cellulare scassato, ma goffamente mi appoggio al tavolino dei suoi amati cactus suscitando all’istante un melodrammatico: «Attenta, me li rovini!»; nell’emotività di tanta apprensione il mio braccio, reso ancor più maldestro, frana miseramente là dove non dovrebbe.

Uscita poi da quell’attimo degno dei migliori umoristi inglesi, mi lampeggia la visione lontana di esotici acquari, nella sua piccola casa di Monfalcone, tanti anni fa: vi nascevano bellissimi pesci tropicali e il mondo ci sembrava (o era) migliore e magari, anche, meno spinoso.

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Foto di Massimo Silvano

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