La sentenza della Corte di Cassazione che difende le leggi italiane perché non hanno ancora riconosciuto le coppie omosessuali ha il trucco: vuole infatti che vengano riconosciute. Quindi, c'è poco da esultare.

Una sentenza con il trucco




La Corte di Cassazione ha respinto la pretesa di una coppia omosessuale di veder trascrivere il proprio matrimonio in un registro comunale. La Corte ha spiegato che né le leggi italiane né la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea impongono di farlo. Quindi la nostra Costituzione non discrimina nessuno anche se non ammette le unioni civili o i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Non è discriminante nemmeno che non esistano in Italia leggi di questo tipo. Viene inoltre confermato che la creazione dei registri comunali per i “matrimoni” gay contratti all’estero è solo una manovra politica e i sindaci non hanno nessun diritto di farlo.

Detto questo, non si comprende però l’euforia che si nota da tante parti nel movimento che in Italia si oppone alle unioni civili e all’inserimento nel nostro sistema giuridico di norme distruttrici della famiglia naturale. Per esempio Mario Adinolfi, in un editoriale de “La Croce” del 10 febbraio, ha parlato di questa sentenza con toni entusiasti. La cosa si può capire. Per chi è impegnato direttamente la sentenza di cui stiamo parlando permette un attimo di ossigeno. Però non più di tanto.

Infatti, dopo aver detto quello che abbiamo appena visto, la sentenza non afferma che non si debba procedere nella legiferazione delle convivenze di fatto, anche nella tipologia delle coppie omosessuali, ma addirittura lo richiede. La sentenza dice che il Parlamento dovrebbe adottare uno “statuto protettivo” che garantisca i diritti delle coppie di fatto, incluse quelle omosessuali. Un riconoscimento formale che permetta di «acquisire un grado di protezione e tutela equiparabile a quello matrimoniale in tutte le situazioni nelle quali la mancanza di una disciplina legislativa determina una lesione di diritti fondamentali scaturenti» da tali relazioni.

Per lanciare questo invito al Parlamento, la Corte di Cassazione fa riferimento all’articolo 2 della nostra Costituzione, che dice: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». L’espressione “sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, secondo la sentenza, comprende anche le “relazioni affettive di coppia”. La Cassazione chiede infatti il riconoscimento di «un nucleo comune di diritti e doveri di assistenza e solidarietà propri delle relazioni affettive di coppia» e afferma la «riconducibilità» di «tali relazioni nell’alveo delle formazioni sociali dirette allo sviluppo, in forma primaria, della personalità umana», ossia all’articolo 2 della Costituzione.

A questo proposito, Riccardo Cascioli, in un articolo su La Nuova Bussola Quotidiana del 10 febbraio, ha spiegato che questa interpretazione dell’articolo 2 è forzata. L’onorevole Giorgio La Pira, che fu l’estensore dell’articolo 2, aveva spiegato che per tutelare efficacemente i diritti della persona bisogna integrare i classici diritti individuali (lavoro, riposo, esistenza e così via) con i diritti essenziali delle «comunità naturali attraverso le quali la personalità umana ordinatamente si svolge». Le «formazioni sociali» dunque corrispondono in realtà alle «comunità naturali» che sono quella «familiare, religiosa, professionale», come viene descritto nella prima stesura dell’articolo 2. Nell’ambito affettivo solo la comunità familiare è giustamente contemplata (e per famiglia si intende quella naturale): inserire qui il riconoscimento delle unioni di fatto – comprese quelle omosessuali – significa di nuovo equiparare qualsiasi tipo di convivenza alla famiglia naturale, esattamente ciò che si era preteso di escludere.

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