Un balletto romantico al cinema




Assetato di infinito e di eterno, attratto dall’abisso, derubato degli ideali che la terra ostinata gli nega, cercatore di libertà, navigatore di mari ignoti ed esploratore temerario dei domini dello spirito. Un pellegrino scontento ma tenace, pronto a calcare tutte le strade in cui vede appena balenare qualche lampo di quella trascendenza che il mondo moderno ha ridotto in agonia. È l’uomo romantico, ultimo testimone di una ricerca dell’assoluto e del sublime prima che la realtà venga amputata e costretta dalle mani dei positivisti nelle maglie di una formula chimica o algebrica.

Leggere e studiare i romantici è come immergersi in un bagno di profumi e di emozioni da tempo dimenticati. La nostalgia del divino fu la nota più luminosa della sinfonia romantica. Paradossalmente la nostra epoca, anche se accecata dalle luci artificiali che ogni giorno velano di più il sole, nasconde nelle sue pieghe molte inquietudini, ferite e desideri di ascendenza romantica.

Un romanzo molto noto, ispirato a quella temperie culturale amante del mistero e dello straordinario, svela al lettore di oggi un empito profetico e a tratti stupefacente. Si tratta del visionario e angoscioso “Frankenstein, ovvero il moderno Prometeo”, romanzo  della scrittrice e saggista inglese Mary Shelley (1797-1851): un piccolo capolavoro della letteratura gotica pubblicato anonimo nel 1818. L’attualità e la profondità di quest’opera hanno trovato un riconoscimento elegante ed esteticamente rapinoso nel balletto “Frankenstein” proiettato in diretta dalla “Royal Opera House” di Londra, in prima mondiale assoluta, anche nella nostra città, il 18 maggio al cinema Ambasciatori e nella sala del “The Space Cinema Cinecity” delle Torri d’Europa. Cogliamo da questa particolare rivisitazione artistica a passo di danza, l’occasione per alcune riflessioni e variazioni sul testo.

Questo romanzo si distingue all’interno del genere fantastico per il vigore profetico dei suoi temi. Anche l’occasione in cui fu scritto rientra nella originalità della sua ispirazione. Nel maggio del 1816 Mary Shelley si trovava a Ginevra insieme al marito Percey Shelley. Erano stati invitati da Byron a trascorrere l’estate nella sua villa, dove aveva raccolto intorno a sé altri amici, letterati, pensatori, aspiranti artisti e altri rappresentanti di quel mondo di mezzo tra integrazione sociale e istinto di fuga e di avventura comunemente definito bohémien. Poiché l’estate era piovosa e malinconica e la maggior parte del tempo la si trascorreva a casa, Byron si inventò un gioco con cui intrattenere i suoi ospiti: ciascuno doveva scrivere una storia di fantasmi, da leggere poi insieme ad alta voce. Le classiche storie di fantasmi erano allora molto diffuse ed apprezzate, tanto che alla fine del 1700 era nato un nuovo genere letterario: il romanzo gotico. I titoli dei romanzi gotici più noti sono una curiosa sinossi del contenuto e del valore di queste opere destinate a un grande successo e a una vasta diffusione: “Il castello di Otranto” di Horace Walpole che inaugurò il nuovo genere; “I misteri di Udolpho” e “L’italiano, o il confessionale dei penitenti neri” di Ann Radcliffe; “Il monaco” di Matthew Gregory Lewis; “Melmoth l’errante” di Charles Robert Maturin.

Gran parte della narrativa gotica vide fiorire romanzi non sempre riusciti sul piano letterario, composti in fretta, adoperando moduli già pronti e ben collaudati sul gusto di un pubblico in cerca di emozioni forti e di colpi di scena continui, prevedibili fino all’ingenuità e grotteschi nella loro ridondante macchinosità. Linguaggio enfatico e ampolloso, intrighi improbabili, gusto barocco del mistero, personaggi cristallizzati nella diade vittima e carnefice, il trionfo del binomio passione e morte, il tutto avvolto in un’atmosfera spettrale e allucinata. Questo gusto per l’orrido e per la tenebra venne ripreso dalla Shelley che lo declinò con intelligenza e sensibilità sulla partitura di un’originale danza macabra di ombre senza pace. La storia è molto nota e tutti quando sentono pronunciare il nome del personaggio, che dà il titolo all’opera, subito si figurano nella mente non il protagonista, il dottor Victor Frankenstein, ma la sua mostruosa creatura così come è stata rappresentata nel film americano del 1931 diretto da James Whal e interpretato da Boris Karloff che mise a punto con il suo trucco un’indimenticabile icona dell’orribile creatura presente tuttora nell’immaginario collettivo: di statura gigantesca, la testa sproporzionata e composta di più parti ricucite insieme, il passo rigido e pesante, l’espressione sepolcrale e a tratti grottesca. Purtroppo questa specie di travestimento esasperato, che il futuro “Frankenstein junior”, diretto da Mel Brooks nel 1974, avrebbe definitivamente ridicolizzato e le innumerevoli versioni cinematografiche avrebbero spinto oltre i limiti estremi del decoro, ha prevalso sulla conoscenza del romanzo. Pochi lo hanno letto e capito, molti lo hanno conosciuto solo nelle più diverse trasposizioni per il cinema.

Il balletto, con la sua fedeltà al romanzo della Shelley, ha significato un’inversione di rotta che ci stimola a riflettere su un tema assai più attuale e bruciante oggi che non negli anni in cui la scrittrice, per puro gioco, si cimentò con il romanzo gotico.

Il sogno di imitare Dio nella creazione della vita è antichissimo. Anche Goethe nel suo “Faust” tra le utopie demoniche del suo personaggio pone la creazione, in un alambicco alchemico, di un “homunculus” poi distrutto perché perfino al genio luciferino di Faust l’esperimento appare troppo ardito ed empio.

Questo sogno è sempre stato relegato nelle fantasie mitiche e  nessun scienziato disposto a vendersi anche a Mefistofele per ambizione ha mai osato realizzarlo. Fino ad ora perlomeno. Il cammino è appena all’inizio, ma la medicina già da tempo ha iniziato quel percorso di sconfinamento che punta a conoscere il segreto della creazione della vita riproducendola in laboratorio. Il medico o lo scienziato in genere per una specie di recrudescenza, aggiornata negli strumenti e nelle conoscenze, del sogno romantico di rubare agli dei i loro segreti, non sono molto lontani dal personaggio letterario.

Colpito da tragedie famigliari molto dolorose, privato delle persone più care ancora in tenera età, Frankenstein sceglie di studiare medicina per riuscire a sconfiggere la morte e rendere eterna la vita dell’uomo sulla terra. La morte è la grande nemica dell’uomo in quanto attacca l’istinto fondamentale della nostra natura: l’istinto alla vita, più forte di ogni altro istinto. Ma il desiderio di carpire alla natura i suoi segreti inviolabili per impadronirsi della sovranità divina sulla vita e sulla morta, ha il suo terribile prezzo, con conseguenze assai più devastanti della morte stessa. Il protagonista infatti, dopo aver assemblato con materiali morti la sua creatura, non appena vede il risultato di tutto il suo lavoro ne prova un tale disgusto e orrore da fuggire via, abbandonando il frutto del suo esperimento non solo in balia della cattiveria umana, ma anche e più ancora nel tumulto oscuro delle forze sconosciute e scatenate di una vita scaturita dalla morte  Chissà quanti esperimenti e manipolazioni della vita si consumano oggi nei laboratori di tutto il mondo, anche in segreto, dietro il paravento del progresso scientifico. Ma vi sono delle leggi che regolano la vita di tutto il creato e che non è stato l’uomo a porre. L’esperienza ha ampiamente dimostrato nel corso dei millenni che la natura violata si ribella e punisce l’arroganza dell’uomo che presume di tutto sapere e dominare, inconsapevole del suo assoluto nulla davanti all’universo, così piccolo eppure tanto tracotante nella sua certezza di poter tutto controllare e dirigere secondo i suoi piani e i suoi desideri.

Senza volerlo Mary Shelley, nel narrare le terribili sventure che capitano al protagonista dopo aver abbandonato la sua creatura, anticipa domande e paure del XXI secolo. E anche se il racconto è tramato di un titanismo schiettamente romantico, in linea con il tipico eroe prometeico che si ribella al giogo degli dei e li deruba del sacro fuoco, l’introspezione ansimante e precipite di Frankenstein perseguitato dai fantasmi della sua superbia e dal senso di colpa per la miserabile esistenza del suo “prodotto”, lasciano affiorare già gli interrogativi e i tormenti legati all’eccessiva libertà della scienza che si investe di poteri illegittimi e contro natura.

La sorte tremenda che distrugge la vita del protagonista, dopo aver rovinato la larvale esistenza della sua creatura, domina gran parte del romanzo e segna le tappe di un disastro annunciato che culmina in un finale spettacolare. Presagi perturbanti e spaventosi si muovono, in questo romanzo dal ritmo affannoso e febbricitante, come strani animali di palude che frusciano sotto la superficie, nascosti e sempre in agguato! La bellezza del paesaggio è dipinta con suggestivo lirismo: le magnifiche montagne della Svizzera e i suoi laghi immoti e profondissimi, fino all’estremo Nord con la sua infinita solitudine di ghiacciai eterni dove si consuma il duello finale, tutta questa magnifica cornice è pensata all’interno del contrasto tra la natura creata da una mano perfetta e gli artificiosi prodotti dell’uomo che gareggia con il divino e non sa poi maneggiare i suoi mostri, icona vivente degli effetti devastanti delle sue demoniche chimere.

La vita non è un gioco di forze fisiche che l’uomo possa conoscere sino in fondo, imitare e modificare sul modello di un ideale stato delle cose controllato e dominato. La creatura infelice e omicida, generata dalla follia arrogante del suo umano creatore, quando racconta la sua misera vita di reprobo aborrito da tutti riversa sul lettore una colata lavica di strazio immenso e senza conforto. Perché sono stato creato?, si chiede. Perché mi è stata data questa vita artificiale che mi domina e mi governa secondo leggi a me ignote che abitano il mio profondo come demoni disturbanti? Chi e che cosa sono io e quale nome e significato hanno le cose strane che mi si agitano dentro la testa, il petto e le viscere?

Il suo creatore non è meno tormentato di lui quando si rende conto della mostruosità del suo esperimento. Chi placherà la furia della creatura?, si domanda nelle notti insonni e interminabili. Quali cose sarà capace di fare in mezzo agli altri uomini? Ma soprattutto che cosa ho messo al mondo, che ne sarà di lui e ancor più di me che mi sono messo sulle spalle un fardello e mi sono gravato di una colpa che niente e nessuno potrà togliermi più? L’esperimento sfugge dalle sue mani e Victor si rende conto che in qualche modo tutto gli ritornerà indietro, perché è legge di natura che l’ordine prefissato delle cose non si violi né si alteri. Ma è troppo tardi.

Chissà se a qualcuno verrà voglia di leggere o rileggere questo romanzo così strano per gli anni in cui fu scritto e così famigliare invece a noi uomini trascinati verso il post-umanesimo? Una prova del carattere aperto e profetico dell’opera d’arte e della sua ispirazione. Mary Shelley infatti ha scritto il suo romanzo per animare i lunghi pomeriggi piovosi nella villa ginevrina di Byron, e abbandonarsi gioiosamente alla libera fantasia, scoccando il suo dardo quasi per gioco ma centrando perfettamente il giusto bersaglio ben più di due secoli dopo.

 

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