Tutti a scuola da Sedlmayr




Se ci fate caso, una delle caratteristiche di questo travagliato passaggio storico è l’assenza del bello. Il bello proprio e anzitutto come categoria e concetto, vogliamo dire. Tranquilli, non stiamo per fare una lezione di estetica, anche perchè non ne saremmo in grado e poi vi annoiereste subito. Però, qualcosa su questo la vogliamo dire ugualmente perchè troviamo che sia un tema costante nella catechesi degli ultimi Pontefici (tanto di Giovanni Paolo II come di Benedetto XVI, anche se a inaugurare gli incontri istituzionali con gli artisti fu addirittura Paolo VI, ancora prima), il che qualcosa vorrà pure significare. Perchè la Chiesa si preoccupa del bello? anzi, del pulchrum, come si dice richiamando un termine alto comune tanto al mondo greco quanto a quello latino plasmati poi dal Cristianesimo? forse che non ci sono altri problemi in giro per il mondo? Al contrario: se la Chiesa nella sua massima espressione lo richiama così spesso è perchè persino il bello alla fin fine è legato alla Verità. Quella con la V maiuscola, s’intende. Che poi è Cristo stesso. Non ci credete? Beh, sappiate che siete minoranza. Perchè il fatto che bello, vero e buono siano legati perennemente e in modo inscindibile l’uno all’altro lo diceva già un certo Platone, non esattamente uno del Novecento. Ma vale anche il contrario: perdere il senso del bello equivale a perdere il senso della verità, che di per sé resta oggettiva e assoluta, non relativa, checché ne pensi Mancuso, Küng o Pinco Pallino.

A schiarirci le idee in proposito arriva, anzi, torna ora il redivivo, ma per noi semplicemente immortale, Hans Sedlmayr. Un’autentica icona del senso dell’arte, mitteleuropeisticamente parlando. Se per caso ancora non lo conoscete, beh…male – molto male – malissimo, come diceva il mio vecchio prof. a scuola quando voleva richiamare l’attenzione distratta degli studenti, scandendo ogni sillaba fieramente con voce stentorea. Le piccole edizioni Borla hanno infatti ristampato dopo trent’anni e oltre di latitanza in Italia il monumentale La perdita del centro, un vero classico dell’estetica cattolica del secolo passato, dopo l’altro, sempre suo (La rivoluzione dell’arte moderna) ripubblicato dalle benemerite senesi Cantagalli qualche tempo fa insieme al memorandum che lo storico dell’arte austriaco inviò al Concilio. Raramente, per non dire mai, uno studioso di questi livelli (il Nostro ha tenuto cattedre presso gli atenei di Vienna, Monaco di Baviera e Salisburgo, tanto per intenderci) ha osato interpretare la storia artistica dell’Occidente secondo i canoni della fede legando i messaggi dei pittori e degli scultori alla genesi e all’evoluzione delle eresie, degli scismi e delle apostasie. Quindi, sì, certo, politicamente è scorrettissimo diremmo oggi. E infatti é stato Benedetto XVI, mica il sottoscritto o sua nonna, che ha detto testuale testuale – facendo eco peraltro al Beato Giovanni Paolo II – che in tempi di dittature del relativismo il Vangelo deve diventare una Controcultura (C necessariamente maiuscola anche qui, evidentemente) nel senso più ampio della parola. Perchè se non riuscirà ad avere influenza anche e anzitutto sulle mentalità, sulle mode, sui gusti, sui costumi e quindi sui comportamenti la nuova evangelizzazione sarà destinata a rimanere lettera morta. A sua volta, poi, il recupero del senso del bello produce a catena – inesorabilmente, staremmo per dire – anche una catechesi fondamentale sulle questioni ultime. Guardiamo alle nostre bellissime Cattedrali, ad esempio, ci hanno ripetuto spesso gli ultimi Pontefici. Che cosa notiamo? Anzitutto l’altezza smisurata, sicuramente. Poi l’armonia impressionante della struttura, lo slancio maestoso della facciata, l’ampiezza grandiosa dei locali, la straordinaria luminosità delle vetrate eccetera. Sembra che nulla sia stato lasciato al caso, se facciamo attenzione. Perfino i più piccoli dettagli hanno richiesto un lavoro particolarmente elaborato (letteralmente ‘certosino’), in tre o quattro fasi diverse. Il bello del bello (se ci permettete il gioco di parole) è che molti di quelli che ci lavoravano erano certi che non avrebbero mai visto la fine del lavoro. Passavano lì giorni e notti, d’estate come d’inverno, all’afa come al gelo, per qualcosa che sarebbe stata inaugurata dai loro figli o dai loro nipoti. Non è assurdo, apparentemente? Infatti, la verità è sempre più profonda dell’apparenza. Il motivo per cui i nostri antenati si comportavano così va ricercato nelle stesse guglie di quelle chiese. Erano guglie straordinariamente alte per quei tempi ma per quanto alte e slanciate fossero rimandavano ancora e sempre più in alto. Quasi a indicare una direzione, invitando gli ammirati astanti ad alzare lo sguardo sopra di essi. Certamente erano particolarmente raffinate ed eleganti a vedersi ma non era quello lo scopo finale: la bellezza doveva servire a fare riflettere chi le osservava – chiunque fosse – a capire da dove veniamo e dove siamo diretti. Proprio come leggere la Sacra Scrittura, più o meno. Siccome però allora leggevano in pochi, i nostri antenati (che saranno stati meno alfabetizzati di noi ma non erano mica scemi) hanno pensato bene di riprodurne una sintesi immediatamente comprensibile nei luoghi dove abitualmente vivevano e lavoravano. Facendo in questo modo, non soltanto hanno edificato dei bei, anzi dei bellissimi posti (vi siete mai chiesti perchè più della metà del patrimonio artistico mondiale dell’Unesco si trova in Italia?) ma hanno conservato anche la fede. La cosa più importante, la perla preziosa del Vangelo. Con il che torniamo dritti dritti a quanto osservavamo all’inizio e cioè al fatto che il bello e il vero sono sempre l’uno la faccia dell’altro. Questo detto molto rozzamente e proprio in due-parole-due però. Ma non finisce di certo qui. Perchè la realtà, a volte supera davvero la fantasia. Se avrete la pazienza di leggere anche il resto che ci ha lasciato Sedlmayr ne vedrete delle belle, in tutti i sensi.

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