Laurea honoris causa dell'Università di Trieste allo scienziato Antnio Damasio. Ridurre l'uomo alle sue funzioni cerebrali, spiegare tutto l'uomo con le sue funzioni cerebrali rimane tuttavia una visione riduttiva, con conseguenze negative.

Trieste premia lo scientismo




I suoi studi sul funzionamento del cervello rappresentano oggi in determinati ambienti della comunità scientifica la punta di diamante della neuroscienza. Stiamo parlando del neurobiologo portoghese Antonio Damasio, presente in questi giorni a Trieste per ricevere alla Sissa il dottorato honoris causa. Nato a Lisbona nel 1944, dopo la laurea in medicina presso l’Università della sua città natale, dal 2005 insegna neurologia, neuroscienza e psicologia alla “University of Southern California”. Anni di studi e di ricerche, divulgati attraverso un’attenta e brillante produzione saggistica, hanno messo a punto una mappatura dettagliata delle diverse aree del cervello e delle loro rispettive funzioni, regolatrici dei processi fisici e mentali che fanno dell’uomo un organismo in sé compiuto e auto-regolato. In sostanza Damasio ha elaborato una visione strettamente meccanicista dell’uomo in tutte le sue facoltà e funzioni, riportando l’intera sfera delle emozioni, dei sentimenti, del pensiero, degli atti volitivi, della mente e della coscienza a leggi organiche, fisiche e biologiche. Tutto ciò che noi sentiamo, ricordiamo, pensiamo, elaboriamo mentalmente e organizziamo attraverso la coscienza, le nostre stesse scelte spesso chiamate a decidere di problemi estremamente complessi, tutto ciò che siamo e facciamo ha la sua origine in una determinata area del nostro cervello.

Tra i suoi saggi più noti, ricordiamo: “L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano” (1995), “Alla ricerca di Spinoza. Emozione, sentimenti e cervello” (2003) e “Il sé viene dalla mente. La costruzione del cervello cosciente” (2012). I titoli di questi studi sono già una dichiarazione programmatica che circoscrive in un perimetro ben tracciato il senso e gli obiettivi della ricerca scientifica del neurobiologo portoghese.

Le sue ricerche hanno avuto sì ricadute positive nella cura di tante patologie, dal morbo di Alzheimer alla depressione e alle diverse forme di dipendenza (dal gioco, dagli stupefacenti e dal tabacco), ma il risultato complessivo è stato comunque un misconoscimento di qualsiasi dimensione ulteriore della coscienza umana. A differenza di altri modelli di approccio allo studio del cervello e della mente, Damasio ha del tutto escluso il principio dell’irriducibilità della sfera interiore e riflessiva dell’uomo a un sistema puramente meccanico. Come molti altri scienziati, anche Damasio applica modelli di funzionamento del computer al cervello — un sistema composto da un hardware, base di ricezione dei dati, e un software che fornisce i dati stessi — e non esclude che si possa arrivare a costruire un’intelligenza artificiale modellata sui meccanismi emotivi e mentali dell’uomo. Le seguenti sue affermazioni tratte da un’intervista ci possono aiutare a cogliere in sintesi il nocciolo della sua visione e la direzione dei suoi studi: «Tutto si può capire meglio se lo si guarda in una prospettiva biologica. I nostri sistemi biologici sono sistemi economici, ovvero sistemi che operano in un ambiente sociale. Questo ci può aiutare a comprendere la nostra società che, in fondo, si comporta come un sistema biologico, basato sul successo e sul fallimento. I sistemi morali, religiosi, economici, così come le leggi o la medicina e le arti, non sono altro che una proiezione di un sistema biologico».

Questo approccio allo studio della mente e della coscienza, concepite come dipendenti dal cervello e non più — sulla scia della cartesiana distinzione tra res cogitans, la mente, e res extensa, la materia —, come parti intangibili dell’essere dell’uomo, determina una lunga lista di conseguenze negative. Il ruolo della coscienza nelle nostre decisioni, da intangibile principio di superiore discernimento segno della costituzione ontologica della persona, non andrebbe oltre a quello di supervisore e coordinatore degli apporti, sensoriali, di emozioni, sentimenti e ricordi, che ci arrivano dall’esterno attraverso i sensi e che il cervello recepisce e rielabora in concetti o immagini, consapevoli o inconsapevoli, razionali o meno. Quando io opero una scelta, secondo Damasio, non faccio che riattivare esiti di esperienze passate, positive o negative, sotto forma di emozioni che indirizzano “organicamente” le nostre scelte. E queste ultime a loro volta sarebbero radicate nel nostro istinto di sopravvivenza regolato da un innato e organico spirito di adattamento all’ambiente che punta all’equilibrio delle forze e ad una calibrata interazione tra l’ambiente esterno e interno, tra mondo e uomo. Viene così eclissata la grande antropologia umanistica, nutrita di filosofia e di teologia, che definisce l’uomo un essere capace di bene e quindi abitato da una presenza intangibile che lo sprona continuamente a sintonizzarsi sulle sue frequenze non materiali e a superarsi in una trascendente unità. Una visione, questa, molto meno astratta e improbabile di quella cosiddetta scientifica, in quanto più ampia e onnicomprensiva di tanti aspetti dell’umano tagliati fuori dagli studi di neurobiologia.

Nel contempo viene anche congedato ogni orientamento ad una dimensione ulteriore che riscatti l’uomo dallo schiacciante determinismo fisico. A cosa si riduce a questo punto l’esperienza umana? Secondo Damasio le nostre esperienze rilasciano nel cervello tracce emotive non sempre coscienti, ora positive ora negative, che anche in assenza di un elaborato processo logico spronano ad una determinata scelta. Queste tracce vengono chiamate “marcatori somatici”, nel senso di vissuti corporei: sono questi marcatori, fonte di piacere o di dolore, a determinare la nostra risposta, di assenso o negazione, di fronte a una scelta. La coscienza diventa un sistema integrato con basi esclusivamente organiche e biologiche, stratificata in “coscienza primordiale”, sede di emozioni e di sentimenti, priva di una consapevolezza di sé e della propria differenza rispetto agli altri oggetti; la “coscienza nucleare” che rappresenta un’embrionale consapevolezza del sé nelle sue determinazioni di spazio e di tempo, quindi nella sua contingente singolarità distinta dagli altri oggetti; la “coscienza estesa” a cui è collegato il nostro sé autobiografico che viene dipanato, ordinato ed espresso con il linguaggio. La coscienza, prodotto di funzioni e reazioni biochimiche legate al cervello, è un’entità fisica che soprassiede e regola i diversi processi in atto nelle diverse aree cerebrali, adattandoli all’ambiente in vista della sopravvivenza, primordiale e principale “preoccupazione” istintuale dell’uomo.

Questo modello di studio ha il suo maggiore limite nell’assenza di domande sul perché delle cose: perché proviamo emozioni, perché pensiamo, perché prendiamo decisioni, perché esistiamo e perché siamo. Il metodo è esclusivamente descrittivo: individuare le diverse aree del cervello e attribuire a ciascuna la sua funzione. Ma se viene studiato solo come un organismo autonomo che ha già in sé, nelle proprie parti, i principi del proprio vivere e del proprio essere, l’uomo rischia di sparire dietro le cose. Ne consegue che questa riduzione, che agli occhi di molti scienziati dovrebbe rappresentare il massimo della logica, della chiarezza e dell’evidenza, in realtà è illogica, oscura e pericolante. Troppe domande vengono eluse, troppi enigmi vengono accantonati, se non negati. Sembra che il mistero dell’uomo e della sua vita, inconfutabile per chiunque voglia aderire alla verità integrale e sempre debordante della nostra condizione, faccia paura a molti, specie a chi è chiamato a studiarlo e a renderne conto. Per esorcizzare questo timore, che il mistero tinge di sacralità, si ricorre allora alla spiegazione più comoda e semplificante e ci si illude che questa possa rispondere a ogni domanda.

Ma più la scienza avanza e crede di aver svelato in termini fisici il mistero del cervello e delle sue funzioni intellettuali, più sprofonda nell’afasia esistenziale e spirituale. Eppure la messe via via più vasta di conoscenze offerte dalla tecnica e dal progresso scientifico dimostra, proprio in virtù delle sue conquiste, quanto più numerose siano le cose che rimangano inspiegate rispetto a quelle che si possono spiegare. Conoscere non significa solo rendere ragione delle cose esistenti e visibili, ma anche e di più dilatare la percezione del mistero intorno a noi. Lo scienziato, nei suo studi e nelle sue conclusioni, è chiamato a riconoscere il limite oltre il quale la ragione non può più aiutarlo a comprendere e i suoi strumenti non possono più dimostrare nulla. Ne va del destino dell’uomo che oggi, sulla scia della piega riduzionista presa da molte branche della scienza, è più che mai interpellato a una scelta radicale: scommettere il proprio destino sul “di meno” a cui lo scientismo vuole abbassarlo, o sul “di più” a cui millenni di cultura e di spiritualità lo hanno instancabilmente chiamato.

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