Tessiture e ricami dalla Palestina




Arti squisitamente femminili, la tessitura e il ricamo da millenni sono il luogo ideale in cui la donna ha espresso non soltanto il proprio mondo interiore e l’intimità della propria vita domestica, ma anche la visione dell’esistenza e dell’universo propria alle più diverse culture e civiltà. In questo senso tessere e ricamare sono state nel corso del tempo due attività collegate al mondo religioso e spirituale, oltre che alle necessità primarie dell’esistenza e alle esigenze del gusto estetico. La mostra “Il ricamo tradizionale palestinese. Storie di donne”, allestita nella Sala Umberto Veruda di Palazzo Costanzi dal 16 agosto al 3 settembre, illumina con straordinaria vividezza di colori e di fantasia questo universo antico e mirabile in cui la donna ha assolto, secondo le facoltà proprie alla sua natura, un compito nobile e sacro volto a conservare e tramandare i valori, le conoscenze e i miti fondanti una determinata società e civiltà. Addentrarsi nella selva infinita di quest’arte non offre solo un prezioso grimaldello per aprire i portali di questo magnifico mondo di simboli e miti, ma facilita con incredibile fluidità e scioltezza un gioco creativo di metafore legate ai più diversi ambiti della vita. Cercheremo di toccare a volo d’uccello alcune creste di questo ondeggiante oceano di immagini e significati i cui echi risuonano da una balza all’altra dell’esistenza umana.
Dio, nei diversi miti legati alla creazione, tesse e ricama l’universo e tutte le sue creature. L’uomo, a sua volta, la cui natura riflette per bagliori la creatività di Dio, tesse e ritesse senza posa la trama della propria vita, variando i fili del proprio destino: se Dio gli dona la materia prima da lavorare, è poi compito suo adoperarla per ricamare sulla tela i disegni del proprio “fato”. Lo scrittore tesse la trama delle sue storie, il cercatore di verità svolge l’aggrovigliata matassa dei misteri incontrati per via e del caos oscuro della propria anima. La tecnica che presiede alla tessitura e al ricamo e l’inventiva che riesce a trarre da semplici fili colorati trame rutilanti e immaginose sono a loro volto fonte di metafore adoperate nel linguaggio scritto e parlato: svolgere una matassa aggrovigliata, perdere il filo, cercare tra le pieghe di qualcosa, essere appesi ad un filo, ricamare sin troppo liberamente su una questione di poca rilevanza, intessere un discorso o l’ordito di una storia. Questo carattere pervasivo della metafora della tessitura è anche legato alle sue dinamiche elementari: l’intreccio dell’ordito, che si svolge in senso verticale, con la trama che si svolge in senso orizzontale. Dall’incontro delle due direzioni nasce la tessitura con i suoi disegni, ricalcando le due direzioni fondamentali della vita, in tutte le sue espressioni: lo svolgimento orizzontale dell’esistenza sulla terra e radicato nella terra e lo svolgimento in verticale, specchio di tutte le tensioni dal basso verso l’alto, dalla terra al cielo, dal perituro all’immortale.
Non è un caso che proprio la donna sia sempre stata custode di quest’arte: lungi dal risolversi, come vuole tanta cultura moderna, in una forma primordiale di schiavitù e di limitazione delle forze ancestrali del femminile, la tessitura è al contrario l’espressione più nobile della fecondità della donna e del suo sacro legame con la potenza creativa. In quanto madre, la donna nel suo generare la vita assolve la funzione propria alla sua natura di infondere ordine e armonia all’informe crogiolo delle forze vitali. Il caos originario viene trasformato dalla fecondità femminile in un cosmo dotato di regola e misura. Questo carattere sacrale che stringe in un solo nodo la donna e l’arte del tessere e ricamare è presente in molte pratiche rituali dell’antichità: in Cina ad esempio, nel più remoto passato, anche le donne partecipavano a dei riti di iniziazione di carattere misterioso e segreto, che prevedevano un ritiro spirituale dedicato alla tessitura durante i mesi invernali, nel corso della notte, nel più assoluto segreto, a contatto con le potenze ctonie e istintuali della vita. Il passaggio dall’acerba fanciullezza alla maturità consapevole dell’età adulta era segnato proprio dal raccoglimento silenzioso nell’ombra, immagine del grembo latore di vita, dalla paziente lavorazione dei tessuti e dall’esecuzione precisa e cadenzata del ricamo, operazioni queste connesse da molti culti e credenze dell’Estremo Oriente alle pratiche di meditazione e concentrazione fonte di ascesi mistica ed estatica. Raccogliersi interamente nel movimento ripetuto dell’ago adeguando alle sue fasi anche il ritmo del respiro è soprattutto nel buddismo zen una delle numerose vie per raggiungere uno stato di profonda quiete e beatitudine.
I miti della tessitura, propri a tutte le credenze e civiltà, sono un’ulteriore fonte di illuminazione: nel mondo classico, il mito di Arianna, di Aracne, delle Moire e la connessione con quest’arte sempre presente nei molti personaggi cantati da Omero, come Circe, Calipso, Elena e in primis Penelope, dilatano i significati reali e metaforici connessi a questa pratica muliebre. Il filo donato da Arianna a Teseo permette al figlio del re di Atene di orientarsi nel labirinto di Minosse, di uccidere il Minotauro e di ritornare alla luce del giorno, vincendo le tenebre infere del caos simboleggiate dal mostro e dal labirinto. Senza l’intelligenza intuitiva della donna, raffigurata dal gomitolo di filo d’oro, l’uomo si perde nel grembo nella notte. L’uomo razionale è incarnato, con le sue capacità ma anche con i suoi limiti, da Teseo, l’eroe vincitore dei mostri e simbolo della ragione che piega le potenze arcane del mondo dei vivi e dei morti. La ragione da sola non basta se a sorreggerla e guidarla non interviene la femminile sapienza frutto dell’intuito originario, retto per natura e connesso con la rete infinita di legami che unisce tutte le cose. Simbolo di questa facoltà fonte di vita e di protezione è il gomitolo d’oro che scioglie il labirinto e ne dissolve il malefico incantamento. Aracne, la sprovveduta fanciulla della Lidia che nessuno eguaglia nell’arte del tessere, viene crudelmente punita da Atena e trasformata in ragno per la sua superbia nel vantarsi delle proprie capacità: solo la virtù in tutti le sue espressioni e il silenzio rispettoso del sacro mistero propiziano le forze divine. Il ragno e la tessitura della tela sono a loro volta metafore trasversali a più campi del sapere e dell’agire umano. La sua fragilità che un soffio d’aria può distruggere richiama il carattere effimero della vita e di tutte le opere dell’uomo. L’ingegno portentoso di questa piccola creatura e l’unità strettissima tra esso e la sua tela può farsi anche modello di ardimentoso e perseverante costruire, in una perfetta simultaneità e spontaneità tra progetto, realizzazione e raggiungimento del fine. Nella letteratura un esempio, tra i tanti, in cui l’immagine del ragno tessitore qualifica un determinato modo di narrare e di svolgere i fili della trama e dell’ordito: Gilles Deleuze in un saggio dedicato a Marcel Proust e al suo capolavoro “Alla ricerca del tempo perduto”, paragona lo scrittore ad un ragno che tesse la sua tela secondo cerchi concentrici sempre collegati, senza alcuno stacco tra l’inizio, lo svolgimento e la fine. Il centro è sempre lo stesso e la crescita potenzialmente infinita, per cui il lettore è sempre fermo allo stesso punto eppure sempre in movimento da un cerchio all’altro. Lo scrittore è tutt’uno con la sua narrazione, al punto che non si riesce a distinguere la sua voce dalle altre innumerevoli voci che si incrociano. In questo modo la totalità fin dall’inizio è contenuta nel frammento e il frammento nella totalità, come accade con la tela del ragno.
Ritornando al mito, se Penelope salva con la sua tela il destino di un regno resistendo grazie alla sua arte e alla sua intelligenza agli assalti brutali del “nemico”, anche la maga Circe e la ninfa Calipso ritratte da Omero mentre lavorano all’arcolaio, sprofondate nell’incanto di una quiete impenetrabile, esercitano la loro influenza su Odisseo, l’una con le sue metamorfosi e i suoi sortilegi e l’altra con le sue promesse di immortalità. Nonostante la loro natura semidivina, anch’esse — come anche la già citata Atena — occupano il loro tempo a tessere e ricamare, arti che questo legame con il divino fa brillare di tutti i loro fuochi. Per quanto riguarda il versante più oscuro e profondo, troviamo nel mondo greco le Moire che sono chiamate a presiedere al tremendo compito di tessere secondo la volontà di Ananke — personificazione della potenza del destino — la vita di ogni uomo: Cloto offre il filo, Lachesi lo avvolge sul fuso e lo tesse, Atropo lo recide al momento della morte. L’immagine delle tre donne, la cui età veneranda e l’aspetto poco avvenente esprimono l’insindacabilità e l’inviolabilità generate dalla loro vicinanza ai massimi segreti della vita, ritorna nelle Parche latine e nelle Norne norrene. Queste ultime siedono accanto all’albero sacro Yggdrasil e lavorano all’arcolaio del destino. Temibile anche il significato del loro nome: “bisbiglia”, a dire qualcosa di oscuro e di segreto che non si può violare né quasi avvicinare. Solo un sussurro, nulla di più, come accade per ogni verità sacra e inviolabile, che l’uomo deve temere e onorare. In tutti questi miti l’accostamento tra tessitura e mondo femminile si tinge di sfumature ombrose e cupe, legate ai misteri primordiali del vivere e del morire. La donna è custode lungo la soglia, ove silenziosa e inaccessibile fila la trama della vita, colma di una potenza tanto più irradiante e temibile quanto più custodita nella quiete di una serena e saggia accettazione del destino. La donna dispensa vita, la protegge, la nutre, la orienta, la soppesa passo dopo passo sulla bilancia della sua saggezza che ha un piatto al di là della vita e un piatto al di qua del limite, così che la vita misuri il suo senso sulla morte e la morte sulla vita, maturando in pienezza il vero senso del destino di ogni vivente. Tessere è allora tacito esempio di questa saggezza che sa attendere mentre il disegno prende forma dall’informe: come l’uomo sta restare immobile e fidente mentre il seme matura in pianta e poi in frutto, così la donna lavora instancabile e paziente mentre dalla matassa aggrovigliata di fili emerge poco a poco la tessitura con le sue immagini e i suoi simboli. Sa come e quando tendere il filo, quando allentarlo, quando disfare un punto malriuscito e quando fermarsi perché il sole sta tramontando. Sa pazientare fino al domani e poi l’indomani ancora, senza mai scomporsi finché tutto è ancora confuso e aggrovigliato, certa che prima o poi, all’improvviso, le figure troveranno i loro contorni e ancora una volta il tessuto diventerà storia, destino, bellezza, segno di un mondo con i suoi spazi astrali e le sue distese incommensurabili regolati e ordinati proprio come lo stesso tessuto che vi allude e li richiama.
Molti tessuti, dagli abiti ai copricapi, dai cuscini alle tende, dalle tovaglie ai tappeti, conservano ancora oggi in determinate parti del mondo echi più o meno forti di questo legame con la visione cosmica ed esistenziale dei diversi popoli. Sia nel caso di molte popolazioni dell’America centrale come nella tradizione del tappeto kilim — tessuto come un arazzo e prodotto dai Balcani al Pakistan — , è ancora molto vivo il senso di appartenenza a un gruppo ben connotato i cui valori, la cui cultura e spiritualità vengono fissati e tramandati attraverso i tessuti. Molti di noi, abituati agli usi occidentali, poco a poco hanno dimenticato il valore rituale e sacro delle vesti e dei tessuti che per lo più oggi vengono scelti secondo criteri di praticità e comodità, nonché secondo esigenze estetiche puramente decorative e individuali. Ma presso molte etnie ancora intimamente connesse alle sorgenti della propria storia, i disegni, i colori brillanti dei fili e i motivi all’apparenza fantastici del ricamo sono una riproduzione stilizzata e fantasiosa di antiche ma tuttora venerate visioni dell’universo con le sue stelle, i suoi pianeti, i suoi dei e le sue dee, il sole e la luna, i fiori e gli animali reali come mitici e fantastici, tutti convocati su un tessuto in un immaginario convito ove ogni volta ristabilire la concordia e l’armonia tra le tutte le cose. In questo modo — come accade soprattutto con i tappeti che vengono adoperati in veste di tende, coperte e soprattutto di “pavimento” negli accampamenti nomadi tra le sabbie dei deserti — i tessuti indossati o impiegati come sfondo dei diversi momenti della vita quotidiana, conviviali, lavorativi, ricreativi o meditativi, sono un monito a non dimenticare mai che l’uomo non è un’entità isolata, un soggetto che costruisce e specula sugli oggetti prodotti, ma un’unità vivente in cui converge tutto l’universo. L’arte e il talento femminili portano così nella vita dell’uomo, ogni giorno e in ogni momento, la sapienza e la forza di visioni antiche e sempre nuove del cosmo e di tutte le sue magnificenze, ricordandogli anche quando mangia seduto su un tappeto, riposa dietro tende e cortine magari disteso tra cuscini ricamati o si reca al mercato a fare acquisti con un determinato abito, che è sempre immerso nella sacralità dell’universo e che Dio, tessitore primo e unico di ogni cosa, mangia, riposa e cammina con lui.

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