Il teatro e la fiaba: due realtà artistiche ed espressive legate soprattutto dalla comune capacità di incarnare, con una vividezza a quattro dimensioni, realtà e verità profonde della vita di ognuno di noi. A Villa Manin, dall’8 luglio al 3 agosto, teatro di figura e fiaba si incontrano per un’estate di fantasia, colore e sogno animata dal “Bestiario fantastico” di Altan e dalle favole, sia quelle popolari italiane raccolte da Italo Calvino, sia quelle classiche di Esopo, Fedro e Orazio (per informazioni più precise: info e programma www.ctgorizia.it, tel. 0481537280; info sede spettacoli Villa Manin 0432821210, www.villamanin.it).
Unire la favola al teatro significa potenziare l’efficacia e l’intensità rappresentativa di ciascuno dei due generi artistici e letterari, sposando il simbolismo della prima con l’immediatezza del secondo. Entrambi, insieme al mito che è una “favola” più sofisticata, complessa e remota, sono stati le più antiche forme di ammaestramento del popolo. Miti e fiabe, fino a non molto tempo fa, venivano narrati nelle campagne davanti al focolare, la sera, come saghe custodi dei valori fondanti di una comunità e della sua tradizione.
Il teatro fin dalle origini è stato pensato per la collettività, all’aperto, affinché tutti potessero abbeverarsi alla sorgente di miti, simboli e ideali propri ad un luogo e ad un tempo determinati. Parliamo del teatro greco, del “teatro” medioevale con le Sacre Rappresentazioni sulle pubbliche piazze antistanti le chiese, del teatro elisabettiano e della commedia dell’arte, ben diversi dal teatro latino destinato piuttosto alla lettura al cospetto del principe e del suo entourage, oppure dal successivo teatro di corte calibrato sul gusto e sull’urgenza sempre incombente di propaganda dei regnanti e dell’aristocrazia, fino al teatro borghese chiuso in spazi riservati per un pubblico selezionato e benestante. Il vero teatro nasce sulla piazza, con l’arcaico Carro di Tespi che attraversa le vie della Grecia arcaica ancora calcata dagli dei, per paesi e città, raccontando storie, le stesse della fiaba e del mito. Il popolo assimila questa narrazione orale, apprende i propri limiti ma anche le proprie ancora inutilizzate facoltà, il proprio posto nella società ma anche nell’universo, i principi guida del proprio vivere in una data civiltà e il proprio destino ulteriore. Anche la fiaba assolve questo compito, e non solo per i bambini che la ascoltano, ma anche per gli adulti che la narrano o la leggono.
A livello popolare, due esperienze in particolare colgono le potenzialità insite nella fiaba e nel teatro, entrambe appartenenti al teatro cosiddetto di figura (marionette, pupi siciliani, ombre cinesi, etc.): il teatrino francese dei burattini o Grand Guignol e, per rimanere entro i nostri confini, il teatro dei pupi siciliani, questo spettacolo così folkloristico eppure così universale e profondo, anche per il carattere simbolico proprio al teatro di figura in genere. Il burattinaio che muove i fili, in una speculazione attenta alle metafore, rappresenta il Fato che guida tutti i destini — o comunque una Forza superiore che ha in mano le sorti di ognuno di noi. I burattini che si muovono e incarnano una storia sono gli uomini che vengono sospinti nella loro esistenza da una volontà che li sovrasta, manipolatrice e in mala fede, oppure sapiente e buona. La storia raccontata è insegnamento delle cose e dell’essenza della vita, fisica e spirituale, destinata ad illuminare la mente di chi è spettatore, ovvero di chi è posto fuori dal gioco di scena e, osservando distaccato l’intrico di destini sottoposti a una Necessità non sempre benevola e giusta, prende coscienza del gioco della vita, delle sue forze e dinamiche, del suo senso e dei suoi fini nonché delle sue illusioni e dei suoi inganni. Fino a qui il carattere metaforico del teatro in sé, come struttura formale ed esteriore
Ma anche le storie narrate, i contenuti, sono utile lezione per il pubblico. Rappresentando con marionette o pupi, oltre alle peripezie grottesche e burlone delle maschere della commedia dell’arte, anche le antiche gesta dei romanzi cavallereschi e cortesi — protagonisti Carlo Magno e i suoi paladini, gli eroi e le eroine innamorati del romanticismo trovadorico o re Artù e i suoi cavalieri, fino al miserevole e sfortunato Guerrin Meschino e alla lunga schiera di anti-eroi “dalla trista figura” nati sotto una cattiva stella —, il teatrino itinerante e popolano per secoli ha ammaestrato il popolo con i principi del valore, del coraggio, dell’onestà e dell’onore. La fiaba o leggenda, messa sulla scena e agita da burattini mossi dall’alto da un’intelligenza ora sapida e creativa, ora dissacrante e crudele nel decretare con indifferenza, senza apparenti criteri di giustizia, fatalità tragiche o felici, è stata a lungo una delle principali forme di educazione e di svezzamento dall’ignoranza e dalla rozzezza della gente semplice e povera dei piccoli paesi tagliati fuori dai massimi circuiti culturali delle città. Gente sì priva di grandi mezzi, spesso analfabeta, eppure dotata di un’istintiva intelligenza della vita, laboriosa e anche seriamente disposta a imparare qualcosa di significativo e di importante, senza per questo rinunciare al puro gusto dell’evasione e del divertimento concessi senza eccessiva generosità nel quadro desolante di un’esistenza fatta per lo più di fatiche e privazioni. In questo senso anche i tipi della commedia dell’arte, solitamente incarnazioni di vizi e difetti denunciati nella loro idiozia e pochezza con la forza del riso e della beffa, hanno svolto un ruolo di dirozzamento dei costumi e di sprone a migliorarsi coltivando la virtù e il buonsenso.
Oggi la metafora del burattinaio e dei burattini si presta bene a rappresentare nuove e più perverse forme di schiavitù e ottundimenti messe in atto, più o meno subdolamente, dal verbo retorico e ideologico dei media, dall’imperativo a consumare sempre di più e senza freni e dalla politica dissennata e ignorante di un ceto di commedianti dimentico di ogni senso del pudore. Ma, come in tutte le cose, il polo negativo presuppone anche un polo positivo. Forse valorizzare la forza maieutica e luminosamente creativa del teatro di figura può ispirare diverse e più feconde identificazioni. Forse ne può venire uno sprone a liberarci dai burattinai ingannatori e dagli innumerevoli “il Gatto e la Volpe” di collodiana memoria appostati ad ogni crocevia della terra, e ad affidarci ad altre ben più alte e previdenti guide, uscendo dalla farsa in cui rischiamo tutti di rimanere impigliati, subendo il contagio degli ormai incomputabili germi di stupidità e ignoranza circolanti oggi nell’aria. Germi assai più insidiosi di quelli, non si sa se realmente pericolosi o spacciati per tali, che attaccano il corpo e per i quali la prevenzione non ha tardato a scatenarsi, con una tempestività e un’“amorevole cura” del prossimo raramente riscontrabile in altre ben più serie e cruciali questioni.
Per restare nel teatro di figura, dove sono finiti i cavalli, i cavalieri, le belle dame d’antan, le mirabili imprese in difesa dell’oppresso e le ricerche predestinate di oggetti miracolosi e portatori di vera sapienza? Un po’ di spirito cavalleresco, tra lo scherzoso e il serio, nell’atto stesso di divertirci e gratificarci con il miele della fantasia e del sogno, può aprirci i polmoni ad un respiro nuovo e l’intelligenza a pensieri liberi fatti d’etere e di luce. Non è “la” meraviglia il fine dell’arte? E la capacità di meravigliarsi non è forse qualità propria dei bambini? Se mai si può essere lieti di essere in debito con qualcuno, dovremmo essere grati di farci debitori dei nostri piccoli quanto a meraviglia. Non è dei piccoli il regno dei cieli?
NON SOLO UNA VOLTA ALL’ANNO
Puntualmente ogni inizio dell’anno ci si augura pace, sperando non sia solo un auspicio ma un desiderio...
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