Sul senso della vita si gioca la missione dei medici




Il discorso di Papa Francesco ai partecipanti al convegno dell’associazione dei medici cattolici italiani acquista un valore straordinario in un momento come questo nella vita della Chiesa e della società.

Innanzitutto mi pare determinante la questione dell’attenzione alla vita, all’uomo, alla vita umana che – dice il Papa – «coinvolge profondamente la missione della Chiesa». Questo coinvolgimento si caratterizza come una concezione della vita fondata sul vangelo, quindi direttamente sull’avvenimento di Cristo e sulla sua presenza nel mondo attraverso la Chiesa. La vita è dunque questo mistero di gratuità che dipende da Dio, che è dono di Dio e che costituisce la ragione profonda del valore e della dignità della vita.

Oggi la tentazione – tra l’altro efficacemente evidenziata da papa Francesco – della riduzione della vita ad alcune sue connotazioni e dimensioni (psicologica, affettiva, culturale) sembra prendere inesorabilmente il sopravvento e diventare la concezione unica dominante per quanto riguarda la vita. Ebbene, in tale situazione questa di una concezione radicalmente autentica della vita umana e della sua dignità come parte fondamentale della missione della Chiesa è un’affermazione di grande capacità di presenza nella società e di interlocuzione attiva e positiva della missione della Chiesa.

La vita quindi va amata, difesa e curata, proprio perché si è convinti e si è consapevoli che si ha di fronte non un oggetto conoscibile scientificamente e manipolabile tecnologicamente, ma un evento assolutamente fondato nel suo obiettivo riferimento al mistero di Dio che crea e di Cristo che redime. La conseguenza è che i medici sono chiamati ad aprire la propria professione secondo un orizzonte di accompagnamento di cura, di carità verso la totalità della persona e della vita e non riducendo la loro professione a terapie di carattere particolare. In fondo il medico esprime in concreto una carità globale per la vita della persona. Ed è dentro questa globalità di carità o di attenzione che poi si situa tutto il cammino terapeutico teso alla guarigione dalla malattia o all’accompagnamento della persona all’incontro definitivo con Dio attraverso il passaggio da questa alla vita eterna.

Rimane in primo piano dunque quella ospitalità alla persona che ha costituito nei secoli la caratteristica fondamentale degli ospedali. Nella tradizione cattolica gli ospedali sono nati da questa volontà e capacità di far compagnia ed accompagnare la persona in tutta la sua totalità facendosi specificamente carico dei suoi bisogni, delle sue fatiche, delle sue patologie. Non a caso per secoli si è parlato di ospedali, cioè di luogo di accoglienza, luogo di convivenza, luogo di compagnia vissuta, luogo di dedizione di una persona ad un’altra persona anche attraverso l’esercizio delle specifiche competenze mediche e attraverso l’uso di precisi strumenti di carattere terapeutico.

Io ricordo che nella mia diocesi d’origine, Milano, il grande ospedale nato nei primi secoli del II millennio era chiamato la Ca’ Granda, la casa grande: la casa che accoglieva gli uomini, tutte le persone connotate da particolari bisogni e da particolari patologie di carattere fisico. E ricordo ancora una consuetudine che non credo sia mai stata abbandonata – sicuramente esisteva quando ero ragazzo -, ovvero che il parroco della Ca’ Granda, dell’Ospedale maggiore era l’arcivescovo di Milano; come a dire che l’ospedale è una particolare espressione di questa accoglienza della Chiesa alla persona, alla sua vita quali che siano le condizioni in cui questa vita si vive.

Su questa prima osservazione che mi pare contenga una grande radicalità, una grande originalità di fondazione da cui deriva l’impegno alla condivisione e alla carità, si situa anche un’altra fondamentale conseguenza di carattere antropologico e culturale che il Papa con molto coraggio e molta chiarezza ha indicato. Oggi c’è un pensiero dominante anche in campo sanitario che altera alcune dimensioni fondamentali dell’impegno medico.

Il Papa è molto chiaro nell’indicare queste deviazioni, che ha definito «falsa compassione»: «quella che ritiene sia un aiuto alla donna favorire l’aborto, un atto di dignità procurare l’eutanasia, una conquista scientifica ‘produrre’ un figlio considerato come un diritto invece di accoglierlo come dono; o usare vite umane come cavie di laboratorio per salvarne presumibilmente altre».

Ecco allora che la professione medica assume anche il carattere di una coraggiosa testimonianza che va contro questo pensiero unico dominante. È una testimonianza che fa dei medici sì dei buoni samaritani, ma la cui prima caratteristica è quella di denunciare e di superare questo pensiero unico dominante in campo medico che fa della medicina semplicemente uno strumento scientifico e tecnologico che rischia di dimenticare la persona e la sua irriducibile verità, e di renderla una semplice parte di un processo tecnologico che finisce per utilizzare o manipolare la persona.

In questo senso è molto importante anche l’ultima conseguenza che papa Francesco tira. Contro una degenerazione dell’arte medica a processo di carattere scientifico e tecnologico, sta la necessità in coscienza per i medici cattolici di prendere la strada anche dell’obiezione di coscienza quando queste manipolazioni diventano lesive dei diritti di Dio oltre che dei diritti della persona.

In un momento come questo in cui – soprattutto nel campo della medicina – si coagulano tutte le questioni gravi per la vita della persona nella nostra società, per il riconoscimento dei suoi diritti, per il rispetto della sua dignità e libertà, questo discorso ha un valore fondamentale. Esso apre infatti una prospettiva di missione fortemente connotata in senso culturale, e decisa a mettere in questione quella che ormai sembra una ideologia che non può e non deve essere messa in discussione.

Mi auguro che questo discorso possa trovare una circolazione adeguata e non sia ridotto a qualche frase estrapolata qua e là a vantaggio dell’ideologia che domina la nostra società; mi auguro che questo discorso possa essere vissuto come un invito a vivere la nostra identità cristiana, la nostra missione nel mondo senza se e senza ma, con quella capacità di tornare continuamente alla nostra identità e di svolgerne tutta la straordinaria e ricca potenzialità di presenza in campo culturale e sociale.

+ Luigi Negri

Arcivescovo di Ferrara-Comacchio

Fonte: http://www.lanuovabq.it/

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