Silenzio sulle persecuzioni contro i cristiani: qualche ipotesi




Come mai c’è voluta una strage tremenda come quella di Garissa, in Kenya, con quasi 150 studenti brutalmente uccisi solo in quanto cristiani, perché il mondo dei media – e parte dello stesso mondo cattolico, sovente timido sul tema – si decidesse a raccontare questa persecuzione? Non c’era modo di accorgersene prima? Mancavano forse dati, notizie e numeri? Nient’affatto: dalle statistiche più accurate sappiamo infatti che se i martiri, cioè quanti perdono la vita per la propria fede o per difendere altri cristiani, sono qualche migliaio l’anno, coloro che invece vengono uccisi in quanto cristiani sono purtroppo parecchi di più: uno ogni 5 minuti, è stato calcolato considerando una somma inferiore alle 130.000 vittime all’anno conteggiate dai sociologi Grim e Flinke (The Price of Freedom Denied, Cambridge University Press 2010).

La domanda iniziale rimane dunque del tutto valida: come mai c’è voluta la carneficina degli estremisti islamici somali al Shabaab perché il mondo si accorgesse della persecuzione dei cristiani? E’ un silenzio troppo grave per essere spiegato da un solo fattore. Certamente pesa il fatto che queste stragi avvengano in Paesi non europei e non occidentali: è stato osservato come, per i media statunitensi – ma il discorso vale anche per quelli italiani – un morto mediamente “valga”, in termini di visibilità mediatica, dieci canadesi, trenta europei, cento russi e mille cinesi; se si considera quali sono i Paesi dove i cristiani sono oggi più perseguitati – Corea del Nord, Somalia e Iraq – una parte del silenzio mediatico sulle persecuzioni ai loro danni inizia ad essere spiegata. Ma il fattore geopolitico, se così possiamo chiamarlo, non basta.

C’è anche un fattore culturale “interno” all’Occidente ed è l’anticristianesimo, un atteggiamento di pregiudizio e ostilità – non sempre vissuto consapevolmente, ma reale – verso la Chiesa e i cristiani che non di rado sfocia atti concreti: stando alle centosettanta pagine del rapporto a cura dell’Osservatorio di Vienna sull’Intolleranza e sulla Discriminazione contro i Cristiani, in Europa non sono affatto rari i casi di atti di odio contro il cristianesimo; se ne verificherebbe, infatti, quasi uno ogni due giorni. In che modo si è radicato e diffuso questo anticristianesimo? E’ una bella domanda. Certamente pesano tutta una serie di menzogne su veri e presunti crimini storici – dal processo a Galileo alle Crociate, dalla Santa Inquisizione allo sterminio dei nativi americani – che vengono puntualmente addebitati alla Chiesa; accanto alle bufale storiche abbiamo poi quelle morali, dalla “sessuofobia” alla “misoginia” dei cristiani.

Neppure il pregiudizio culturale, per quanto esteso e non sempre banale da intercettare, risulta però sufficiente a spiegare la fatica a parlare delle persecuzioni contro i cristiani. Occorre quindi considerare un terzo fattore – non alternativo, ma complementare agli altri -, e cioè quello antropologico. In estrema sintesi ci si riferisce, qui, all’odio che l’uomo contemporaneo, specie in Occidente, nutre verso se stesso; un odio che sembrerebbe in contraddizione con la melassa del politicamente corretto, mentre invece ne è consustanziale. Una volta infatti che un continente ed una civiltà decidono di fare a meno di Dio – o di “privatizzare Dio”, riducendolo ad agente tascabile – l’esito principale è quello per cui tutti, in un modo o nell’altro, iniziano a sentirsi Dio, illudendosi di poter fare ciò che vogliono e di poter vivere ciascuno secondo una propria insindacabile morale. Si può forse credere che un mondo così possa trovare spazio il Cristianesimo e tempo per denunciare le persecuzioni contro di esso?

di Giuliano Guzzo

Fonte: http://www.libertaepersona.org

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