Relazione del cardinale Robert Sarah, presidente del Pontificio Conmsiglio "Cor Unum", al convegno dei Vescovi europei della CCEE tenutosi a Trieste dal 4 al 6 novembre 2013 (Foto La Bella).

Servizio della carità e nuova evangelizzazione




Robert Card. Sarah

Presidente Pontificio Consiglio Cor Unum

 Servizio della carità della Chiesa e nuova evangelizzazione.

Trieste 4-6 Novembre 2013

 Eccellenze,

 sono molto contento di essere quest’oggi in mezzo a voi. Sono grato a quanti si sono prodigati nell’organizzazione di questo incontro e di avermi dato la possibilità di prendere la parola. Il nostro Dicastero è particolarmente grato al CCEE per la comune organizzazione di questo incontro, che ci consente, oltre che di presentare il recente Motu Proprio  Intima Ecclesiae Natura  sul servizio della carità, di attirare l’attenzione dei Vescovi su questa dimensione essenziale della vita ecclesiale. Da parte mia, tenterò di presentarvi alcune riflessioni teologiche sul servizio della carità della Chiesa. Nel Motu Proprio il Santo Padre ha voluto infatti esplicitare da un punto di vista canonico alcuni punti che riguardano la sua riflessione teologico – pastorale, contenuta in particolare nell’enciclica DCE. Il nostro Dicastero ha tra i suoi compiti speciali quello di animare la pastorale della carità nella Chiesa. Ci è stata anche affidata l’applicazione del Motu Proprio, che prevede, tra il resto, che il nostro Dicastero possa erigere con personalità giuridica pubblica organismi di carità in ambito internazionale. Ma i primi destinatari del Motu Proprio sono i Vescovi stessi, e perciò stiamo sensibilizzando i Vescovi in tutta la Chiesa a queste tematiche. Ringrazio particolarmente il CCEE che ci consente di tenere questo incontro con voi. Nel proemio del Motu Proprio il Santo Padre così definisce il senso del documento: “In tale prospettiva, perciò, col presente Motu Proprio intendo fornire un quadro normativo organico che serva meglio ad ordinare, nei loro tratti generali, le diverse forme ecclesiali organizzate del servizio della carità, che è strettamente collegata alla natura diaconale della Chiesa e del ministero episcopale”(Proemio). Mi rendo conto – lasciatemelo dire in tutta franchezza – che si devono superare due considerazioni che spesso impediscono ai vescovi di intervenire in questo ambito. La prima è che i vescovi hanno già molte cose di che occuparsi e dunque possono lasciare questo ambito ai laici, che forse ne sanno di più. La seconda è che – nell’impressione generale – il servizio della carità funziona già bene da solo e non dobbiamo occuparcene più di tanto. E tuttavia, se Papa Benedetto XVI ed ora Papa Francesco, tanto insistono su queste tematiche, una ragione ci deve essere! Aver collocato questo tema nel contesto della nuova evangelizzazione significa che siamo chiamati a leggere il servizio della carità in una prospettiva più ampia, e a cogliere le grandi possibilità pastorali che in esso sono nascoste. Infatti, forse come in nessun altro campo dell’azione ecclesiale, attraverso i nostri molti organismi ecclesiali di carità raggiungiamo persone che, insieme al pane, al cibo, alle medicine ed alla loro dignità e diritti umani, hanno bisogno di conoscere Cristo. La vostra numerosa presenza in rappresentanza di tante conferenze episcopali ci incoraggia a proseguire su questa strada per applicare al meglio la nuova normativa voluta da Benedetto XVI.

 1. La crisi d’identità della missione caritativa della Chiesa

Nel periodo del dopo concilio, con la secolarizzazione che si diffondeva rapidamente, anche la missione caritativa della Chiesa si è trovata nell’occhio del ciclone, tanto che Papa Paolo VI, già consapevole che alcuni malintesi e deviazioni minavano una comprensione ecclesiale corretta dalla carità, ribadiva che Cristo è l’unica dimensione della testimonianza di carità e che l’annuncio del Vangelo è parte integrante dell’attività caritativa ecclesiale. Va precisato che «proprio da questa visione partiva Paolo VI per comunicarci due grandi verità. La prima è che tutta la Chiesa, in tutto il suo essere e il suo agire, quando annuncia, celebra e opera nella carità, è tesa a promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo»[1]. «La seconda verità è che l’autentico sviluppo dell’uomo riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione» [2]. Senza un rapporto con Dio attraverso Gesù Cristo, « senza la prospettiva di una vita eterna, il progresso umano in questo mondo rimane privo di respiro. Chiuso dentro la storia, esso è esposto al rischio di ridursi al solo incremento dell’avere; l’umanità perde così il coraggio di essere disponibile per i beni più alti, per le grandi e disinteressate iniziative sollecitate dalla carità universale… [poiché il vero sviluppo esige] una visione trascendente della persona, ha bisogno di Dio: senza di Lui lo sviluppo o viene negato o viene affidato unicamente alle mani dell’uomo, che cade nella presunzione dell’auto-salvezza e finisce per promuovere uno sviluppo disumanizzato»[3]. E Paolo VI continuava: « Tra evangelizzazione e promozione umana — sviluppo, liberazione — ci sono infatti dei legami profondi (…) La testimonianza della carità di Cristo attraverso opere di giustizia, pace e sviluppo fa parte dell’evangelizzazione [4], perché a Gesù Cristo, che ci ama, sta a cuore tutto l’uomo» [5].

A sua volta, dall’inizio del suo pontificato, Papa Giovanni Paolo II ha sottolineato il legame tra vangelo e carità chiedendo di «ben situare la promozione nel contesto dell’evangelizzazione che è la pienezza della promozione umana» [6]

Il compito che il Santo Padre mi ha affidato, tre anni fa, come Presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, fa di me un testimone privilegiato delle gioie ma anche delle difficoltà e delle provocazioni che deve affrontare l’azione caritativa della Chiesa in un contesto che è ora diverso da quello del post-concilio. La società odierna vive infatti una crisi economica internazionale senza precedenti, che colpisce in modo particolare gli ambiti sociali e obbliga la Chiesa a raccogliere importanti sfide. Si tratta di una grave recessione dai risvolti antropologici, etici, culturali e spirituali, che colpisce l’uomo nella sua identità ed essenza. Bisogna ammettere che l’indifferenza religiosa, la secolarizzazione, l’ateismo, il relativismo etico e religioso, le nuove ideologie, come quella del gender, presenti nella nostra società, alimentano ed ispirano, malgrado tutto, una vita vissuta «come se Dio non esistesse»[7]. E persino tra i battezzati e i discepoli di Cristo vi è oggi una sorta di «apostasia silenziosa», un rifiuto di Dio e della fede cristiana nella politica, nell’economia, nella dimensione etica e morale e nella cultura post-moderna occidentale. Involontariamente, respiriamo a pieni polmoni dottrine che sono contrarie all’uomo e generano nuove politiche che hanno un effetto di erosione, distruzione, demolizione e grave aggressione, lente ma costanti, soprattutto sulla persona umana, la sua vita, la sua famiglia, il suo lavoro e i suoi rapporti interpersonali. È facile costatare che ciò che nuoce alla vera felicità dell’uomo, ciò che lo distrugge maggiormente nel suo intimo, è la confusione e lo squilibrio interiore, la schiavitù del denaro, la sbagliata interpretazione della libertà, la pretesa di fare a meno di Dio, lo sfruttamento a fini commerciali o egoistici del sogno segreto che è nel cuore dell’uomo, il disconoscimento del suo vero valore di creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio, il dimenticare le finalità fondamentali della società: non abbiamo più nemmeno il tempo di vivere, amare, adorare. Ecco una sfida eccezionale per la Chiesa e per la pastorale della carità. La Chiesa, infatti, denuncia anche le varie forme di sofferenza di cui è vittima la persona umana. Ebbene, viviamo in una nuova era culturale, definita “post-moderna”, che propone, nella migliore delle ipotesi, un umanesimo senza Dio, abbinato ad un soggettivismo esacerbato, ideologie che vengono veicolate oggi dai mezzi mediatici e da gruppi estremamente influenti e finanziariamente potenti, nascosti dietro le apparenze del servizio internazionale e che operano anche nell’ambiente ecclesiale e nelle nostre agenzie di carità.

Ecco perché mi pare importante, nel nostro incontro, sottolineare «gli elementi costitutivi che formano l’essenza della carità cristiana ed ecclesiale» (DCE, 31) e di tornare a focalizzare la nostra riflessione sull’identità dell’azione caritativa della Chiesa e sulla responsabilità dei Vescovi, alla luce del Motu Proprio, ma soprattutto dell’Enciclica Deus Caritas est, documento che, in questi ultimi anni, è diventato indubbiamente la nostra tabella di marcia e l’ispiratrice della nostra riflessione teologica sull’attività caritativa della Chiesa. L’Enciclica, che ha inaugurato il pontificato di Benedetto XVI, tratta dell’esercizio della carità ecclesiale collegandola direttamente alla Chiesa, all’incarnazione del Figlio di Dio e al Dio-Trinità; sottolinea una visione verticale  della Chiesa, che da Dio-Trinità deriva la sua origine e il suo fine, l’identità delle proprie opere e la sua missione caritativa. La Chiesa è in un certo qual modo come la luna che riflette e trasmette la luce e l’amore di Dio. La luna brilla solo quando illuminata dal sole. Ella riflette solo la luce del sole, così senza il sole la luna è oscura, opaca e senza luce. Vorrei sottolineare fin d’ora che i valori cristiani che la guidano e l’identità ecclesiale dell’attività caritativa della Chiesa non sono negoziabili, debbono respingere qualunque ideologia contraria all’insegnamento divino trasmesso dalla Chiesa, rifiutare categoricamente qualunque sostegno economico o culturale che imponga condizionamenti ideologici contrapposti alla visione cristiana dell’uomo. Per questo, dobbiamo prendere maggiormente coscienza di cosa sia l’attività caritativa della Chiesa, della sua specificità e crescere nella nostra responsabilità di cristiani e nella nostra missione al servizio dell’amore. 

 2.     La dimensione ecclesiale del servizio di carità

In questo contesto nasce la prima enciclica di Papa Benedetto XVI Deus Caritas est. Questa si apre sulla contemplazione dell’amore di Dio Uno e Trino che si è incarnato in Gesù Cristo, sottolineando così l’origine teologica e più precisamente trinitaria di ogni attività caritativa – come dicevo. Testimoniare la carità agli altri, infatti, è rivelare il disegno del Padre che, mosso dall’amore (cf. Gv 3,16) ha inviato il Figlio unigenito nel mondo per redimere l’uomo. Morendo sulla croce, Gesù emise lo spirito (cf. Gv 19,30), preludio del dono dello Spirito Santo, cioè dell’effusione del dono del suo amore nel cuore di chi crede. In questo senso, consapevole che ogni atto di vera carità è animato dallo Spirito e sorge dal Dio Uno e Trino, sant’Agostino ha potuto dire: “Se vedi la carità, vedi la Trinità” (cf. DCE, 19). Questo si applica anche alla vita della Chiesa. Quest’ultima esprime la sua natura profonda in una triplice missione: “L’intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyria), celebrazione dei Sacramenti (leiturgia), servizio della carità (diakonia). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro” (DCE 25), se non si vuole sfigurare la Chiesa. D’altro canto, ciò indica che il servizio della carità appartiene al cuore della vita della Chiesa. Questo significa tra l’altro che il servizio della carità non può esistere senza l’annuncio della parola di Dio e senza la celebrazione dei sacramenti. Questa affermazione di Benedetto XVI, che descrive il ruolo della carità nella Chiesa, ci spinge a riportare la pastorale della carità alla sua sorgente, per evitare di ridurla ad una specie di attività di assistenza sociale, una pura espressione filantropica o una semplice solidarietà umana. Infatti persiste -e non solo nel mondo occidentale- una secolarizzazione che tende a svuotare la Chiesa della sua dimensione trascendente. Il resto di questa spoliazione è la riduzione della Chiesa ad un’agenzia etica, che cioè fornisce valori da applicare nella vita, oppure ad agenzia di assistenza umanitaria e sociale che si prende cura dei poveri, soprattutto in quelle situazioni che la mano pubblica non riesce a raggiungere. Non dobbiamo sottovalutare la portata di questo fenomeno, che darebbe alla Chiesa un riconoscimento pubblico per ciò che fa, relegando la sua ragion d’essere a ciò che è umanamente e secolarmente rilevabile, ma svuotandola di fatto della sua essenza. Piuttosto la carità della Chiesa va letta insieme alla sua origine divina alla quale ho fatto riferimento prima, nel complesso della missione ecclesiale di evangelizzare, di santificare e di guidare i credenti. Dunque non basta leggerla in funzione dell’utilità sociale, ma va considerata come momento in cui si dà, si realizza, si compie la Chiesa. Ciò non significa che si prescinde dai dati sociologici, o che non dobbiamo salutare con favore l’accoglienza che è riservata alla nostra azione sociale. Ma tutto ciò va  riportato ad una lettura di fede che consente di vedere la Chiesa nella sua integrità. Dunque l’azione di carità va riportata al suo rapporto intrinseco con l’annuncio della fede e con la celebrazione di esso nella liturgia. In questi munera la Chiesa realizza se stessa, si manifesta e si compie. Questo è contenuto già negli Atti degli apostoli, nei quali ci viene descritta la comunità cristiana delle origini: “Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (At 2,42). La Chiesa è stata segnata fin dagli inizi dall’ascolto della parola di Dio, dalla celebrazione dei sacramenti e dalla carità vissuta. Queste caratteristiche non sono solamente la descrizione fenomenologica dell’attuare ecclesiale, ma il modo concreto in cui la Chiesa esercita se stessa, in cui si realizza e cresce. Nella dogmatica queste dimensioni ecclesiali sono state denominate appunto come martyria, leitourgia, e diakonia. Così la carità si accompagna per intrinseca logica all’evangelizzazione e alla liturgia. Insieme esse realizzano la Chiesa, che non si dà pienamente se manca uno dei tre aspetti menzionati.

Anche Papa Francesco, all’inizio del suo pontificato, ha affermato che “Noi possiamo edificare tante cose, ma se non confessiamo Gesù Cristo, la cosa non va. Diventeremo una ONG assistenziale, ma non la Chiesa, Sposa del Signore. Quando non si cammina, ci si ferma. Quando non si edifica sulle pietre cosa succede? Succede quello che succede ai bambini sulla spiaggia quando fanno dei palazzi di sabbia, tutto viene giù, è senza consistenza. Quando non si confessa Gesù Cristo, mi sovviene la frase di Léon Bloy: “Chi non prega il Signore, prega il diavolo”. Quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del diavolo, la mondanità del demonio” (Omelia di Papa Francesco nella messa con i Cardinali il 14 marzo 2013).  

Così possiamo dire che la carità vissuta partecipa della sacramentalità della Chiesa: contiene e rimanda ad un mistero più grande.

Infatti, se analizziamo più a fondo questo reciproco rapporto delle diverse modalità di realizzazione dell’azione della Chiesa, possiamo chiederci dove si incontrano annuncio, liturgia e carità. O se volete, più direttamente, a cosa mira l’azione della Chiesa? Meglio ancora: quale è oggi, la missione della Chiesa, nella quale anche la carità si integra?

Non possiamo capire la missione della Chiesa senza riportarla alla missione di Cristo, suo Fondatore. Come ci insegna ampiamente il Concilio, il senso della Chiesa è quello di portare la luce di Cristo al mondo e di essere segno e strumento dell’unità degli uomini in Cristo (cf. LG 1). La missione della Chiesa consiste dunque nel favorire l’incontro di ogni uomo con Cristo salvatore, perché mediante il dono dello Spirito Santo il cristiano assuma quegli atteggiamenti di carità che furono in Cristo Gesù (cf. Fil 2).

In questo orizzonte della missione della Chiesa, la pastorale della carità significa far sperimentare all’uomo la carità di Cristo, che ha donato la sua vita per noi, per cambiare così l’uomo in modo che, liberamente, impari a dare la sua vita per l’altro. Dunque l’azione di carità della Chiesa mira a raggiungere l’uomo perché sperimenti la misericordia di Dio in Cristo. Papa Benedetto XVI è molto chiaro nella sua enciclica riguardo a questo aspetto. “Vivere l’amore e in questo modo far entrare la luce di Dio nel mondo, ecco ciò a cui vorrei invitare con la presente enciclica” (n. 39), scriveva in conclusione della DCE. 

 3. Il rapporto con la nuova evangelizzazione

Capite così perché ho voluto precisare che il nostro discorso non  è primariamente un discorso sociale, ma è un discorso teologico. Questa differenziazione è importante perché mette l’attività caritativa nel suo giusto solco, come lo ha indicato Benedetto XVI nell’enciclica che ho menzionato. Infatti, l’origine della carità è divina: Deus caritas est. E’ Dio che ci dice che cos’è la carità, anzi, che nel suo Figlio ci ha mostrato la carità che, nel linguaggio biblico, significa non solo amare, ma amare pienamente fino a dare la propria vita, fino a perdersi, fino a morire a se stessi per l’altro.

 Questa rivelazione del senso profondo dell’amore è talmente nuova che il concetto che il Nuovo Testamento utilizza per esprimerlo prima non era presente. Come sapete, infatti, “agape”, tradotto in latino “caritas”, si incontra solo nel Nuovo Testamento ed era sconosciuto alla cultura greca.

La specificità del discorso cristiano mi induce a soffermarmi ora su un punto molto caro al magistero di Papa Benedetto XVI, sul rapporto naturale tra vangelo e carità. Lo scorso messaggio per la quaresima si focalizza sullo stringente rapporto tra fede e carità, dal tema “Credere nella carità suscita carità «Abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16). Il Santo Padre vi ribadisce che “la massima opera di carità è proprio l’evangelizzazione, ossia il «servizio della Parola». Non v’è azione più benefica, e quindi caritatevole, verso il prossimo che spezzare il pane della Parola di Dio, renderlo partecipe della Buona Notizia del Vangelo, introdurlo nel rapporto con Dio: l’evangelizzazione è la più alta e integrale promozione della persona” (cf. Messaggio Quaresima 2013, 3). Già confermando una affermazione di Papa Paolo VI, Benedetto XVI scrive nell’Enciclica Caritas in Veritate: “che l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo” (Caritas in Veritate, 8; Populorum Progressio, 16).

D’altro canto, all’inizio del Sinodo dell’ottobre dello scorso anno sulla nuova evangelizzazione  il Benedetto XVI ha sottolineato di nuovo questa grande unità tra fede e carità, affermando che “i pilastri della nuova evangelizzazione sono la «confessio»e la«caritas»: sono i due modi con cui Dio ci coinvolge, ci fa agire con Lui, in Lui e per l’umanità. La«confessio»quindi non è da considerarsi una cosa astratta, bensì è «caritas», è amore. Solo così è realmente il riflesso della verità divina, che come verità  è inseparabilmente anche amore. Questo amore è fiamma, accende gli altri; è una passione che deve crescere dalla fede, che deve trasformarsi in fuoco della carità” (cfr. Meditazione della prima Congregazione Generale). La reciproca appartenenza di parola, sacramenti e carità per la salvezza dell’uomo ci indicano dunque una strada per la corretta comprensione dell’evangelizzazione. Siamo ormai alla conclusione dell’anno della fede e mi preme ricordare che, già dando l’annuncio dell’anno della fede, nel Motu ProprioPorta fidei”, il Papa ricorda questo legame profondo della fede con la carità: la fede e la carità si compenetrano e si fecondano a vicenda (cfr. n. 14). In questo senso l’evangelizzazione – e la nuova evangelizzazione per i paesi di tradizione cristiana – è molto più di un percorso di apprendimento. L’evangelizzazione è più di un percorso conoscitivo, come già ha scritto Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi. E non dice solo che l’opera di carità conferma quanto la parola promette. E’ di più: nella Chiesa l’annuncio è legato alla carità e alla liturgia, perché la fede si vive, non si apprende come una nozione. Quella vita che Cristo ci ha promesso giunge all’uomo attraverso l’annuncio della fede, ma gli viene passata attraverso la liturgia, i sacramenti in particolare, e trova espressione concreta nella carità vissuta. Non è un caso se la vita della Chiesa, che è la vita di Cristo, si dà nell’insieme di martyria, leitourgia e diakonia. Siamo chiamati ad uscire da una comprensione razionalistica, accademica ed intellettuale dell’evangelizzazione, che invece deve raccogliere tutti e tre questi elementi, perché l’evangelizzazione è un processo vitale.

Perciò fede e carità vanno insieme, come vangelo e opere vanno insieme. Anche la nuova evangelizzazione passa necessariamente per un’esperienza personale di Cristo. Da una parte una vita fondata solamente su una presunta fede, corre il rischio di naufragare in un banale sentimentalismo, che riduce il rapporto con Dio ad una mera consolazione del cuore. Dall’altra parte una carità, che non si inginocchia davanti a Dio e che non tiene presente la sorgente da cui scaturisce e a cui deve essere indirizzata ogni azione di bene, rischia di essere ridotta a mera filantropia e puro “attivismo moralista”. Pertanto si è chiamati a tenere uniti nel proprio vivere la “conoscenza” della verità con il “camminare” nella verità.

D’altro canto – ed è il motivo determinante per noi – evangelizzazione e carità vanno insieme perché Cristo per primo così ha fatto e così ha voluto. La sua presenza in mezzo a noi è stata di annuncio e di servizio; nella carità ci ha mostrato il volto di quel Dio che egli incarna. Gli atti di compassione di Cristo, quando moltiplicava i pani (Mt 14, 17-21 ; 15, 32-39 ; Gv 6, 1-65), guariva un malato o resuscitava un morto (Lc 7, 11-17 ; Gv 11, 1-43), parlava con la Samaritana (Gv 4, 1-41), o mangiava a casa di Zaccheo (Lc 18, 1-10),  costituivano la manifestazione dell’annuncio di salvezza, tanto che non era possibile separare la dottrina di Cristo dalla sua presenza compassionevole e piena d’amore per quanti soffrono e sono i più sfavoriti. Ma non si può servire l’uomo senza l’ansia di dargli tutto ciò di cui ha bisogno, senza conoscere che, nel fondo di se stesso, l’uomo ha fame e sete di quella felicità che gli viene dal sentirsi amato e voluto da Dio.

 4. La responsabilità del Vescovo nell’ambito della carità come fondamento per evangelizzare

 Queste riflessioni sulla dimensione ecclesiale ed evangelizzatrice del servizio della carità ci introducono ad un ultimo tema: la responsabilità del vescovo nell’ambito caritativo, come grande possibilità di annunciare e rendere presente il Vangelo di Gesù Cristo. Essendo la carità un’attività ecclesiale – essendo una dimensione fondamentale della Chiesa – questa attività caritativa deve essere ricollegata al ministero episcopale. In effetti a causa della natura sacramentale della Chiesa, ogni sua attività deve riflettere la struttura episcopale. Come la predicazione e la liturgia, così anche la diakonia sta sotto la responsabilità del Vescovo. L’enciclica DCE lo ricorda al n. 32: “Alla struttura episcopale della Chiesa, poi, corrisponde il fatto che, nelle Chiese particolari, i Vescovi quali successori degli Apostoli portino la prima responsabilità della realizzazione, anche nel presente, del programma indicato negli Atti degli Apostoli (cf. 2, 42-44): la Chiesa in quanto famiglia di Dio deve essere, oggi come ieri, un luogo di aiuto vicendevole e al contempo un luogo di disponibilità a servire anche coloro che, fuori di essa, hanno bisogno di aiuto”.

Il Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi, pubblicato dalla Congregazione dei Vescovi il 2.2.2004, nel cap. VII, sul Munus Regendi del Vescovo diocesano, esplicita la responsabilità del Vescovo sia nell’ambito dell’evangelizzazione che in quello della carità. Lo definisce “presidente e ministro della carità nella Chiesa” (n. 195). Ciò implica una duplice conseguenza: la personale testimonianza di semplicità di vita e di carità verso i poveri; e un’attenzione specifica e paterna verso i più bisognosi ed abbandonati della società affinché la Chiesa particolare viva la diakonia che Cristo ha insegnato. Il recente Motu Proprio esplicita il mandato generale dato ai Vescovi al can. N. 394 CIC §1 : “Il Vescovo favorisca nella diocesi le diverse forme dell’apostolato e curi che in tutta la diocesi o nei suoi distretti particolari tutte le opere di apostolato, mentre conservano l’indole propria di ciascuna, siano coordinate sotto la sua direzione”. Tuttavia il Vescovo non può operare facendo a meno del corpo che presiede. Perciò tutti i fedeli devono essere educati allo spirito di condivisione e di carità autentica. Ogni comunità cristiana deve essere un “cuore che vede” la miseria che esiste intorno a sé (cf. artt. 1 e 9 Motu Proprio).

Quali sono gli ambiti dell’attività caritativa che oggi richiedono particolare attenzione da parte dei Vescovi ?

a) In primo luogo, si tratta di definire correttamente la natura dell’attività caritativa, per non trasformarla in intervento di tipo politico, puramente sociale o umanitario. Il vero senso della carità cristiana non dipende da un’ingiustizia oppure da un fattore esterno come quello della violazione dei diritti o dei principi fondamentali della dignità della persona umana da parte della società che emargina, da parte dello Stato o di qualunque altro potere istituzionale: il servizio della carità nasce dall’incontro personale con l’amore di Cristo che, nella fede, ci muove generosamente e gratuitamente verso i più poveri, per testimoniare loro l’amore trinitario: «Caritas Christi urget nos » (2 Co 5,14). Nel servizio di carità la Chiesa, prima che rispondere ad un bisogno, esprime se stessa; manifesta la sua natura profonda. Mantenere il servizio della carità in questo spirito ecclesiale è il primo compito del Vescovo in questo settore.

 b) Poi ci dobbiamo porre un quesito fondamentale: quale visione di uomo vogliamo promuovere attraverso la nostra azione caritativa?   Il sostegno che offrono gli organismi caritativi ecclesiali mira alla promozione umana integrale; si tratta pertanto di non ridurre l’attività caritativa ad una società di servizi che fornisca attività professionali competenti e specifiche per ogni tipo di disagio, anche se la competenza e l’efficacia sono essenziali e costituiscono un primo soccorso. Benedetto XVI insiste infatti sul fatto che la Chiesa debba costantemente preoccuparsi di dare l’esempio di un servizio reso con competenza, professionalità e grande rigore di trasparenza e onestà nella gestione amministrativa e finanziaria delle proprie opere. Ma si tratta anche e soprattutto di rispettare profondamente la persona umana nella sua dignità di figlio di Dio e, a tale scopo, dobbiamo difendere radicalmente una visione dell’uomo che integri assolutamente la dimensione religiosa, trascendente della persona umana, chiamata alla comunione con Dio. È evidente che, in questo campo, non esistono soluzioni preconfezionate, ma vi è una cosa estremamente importante: ciascuno dei nostri progetti deve essere a misura e in favore della preminente dignità della persona umana. Ecco perché è necessario porsi costantemente queste domande: che tipo di uomo vogliamo amare, aiutare, soccorrere, salvare? Qual è la sua vera felicità, come condurlo verso la sua realizzazione? A cosa è chiamato? È sufficiente offrirgli cure, nutrimento e vestiti, riducendolo ai meri bisogni e realtà materiali?

c) Se l’uomo è chiamato ad una vita di comunione con Dio attraverso la fede, allora è possibile comprendere che l’azione caritativa deve occupare un posto preminente nel piano di salvezza di Dio per l’uomo, realizzato mediante la nuova evangelizzazione. La Rivelazione ci insegna che la carità è al centro del Vangelo: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri»(Gv 13,35). Come ci dicono le parole dell’apostolo Giovanni, la carità è il grande segno che rimanda a Dio, attraverso la cui testimonianza è possibile, per il cuore dell’uomo, aprirsi per accogliervi lo Spirito Santo. Pertanto, la pratica della carità si può paragonare ad una predicazione silenziosa, ma viva ed efficace, una testimonianza del nostro incontro personale ed intimo con Cristo in maniera da far vedere e incontrare Cristo vedendo noi. Per questo, quanti praticano la carità debbono essere testimoni credibili di Cristo, poiché «chi esercita la carità in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa. Egli sa che l’amore nella sua purezza e nella sua gratuità è la miglior testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare. […] Egli sa che Dio è amore (cf. 1 Gv 4, 8) e si rende presente proprio nei momenti in cui nient’altro viene fatto fuorché amare. […] Di conseguenza, la miglior difesa di Dio e dell’uomo consiste proprio nell’amore. È compito delle Organizzazioni caritative della Chiesa rafforzare questa consapevolezza nei propri membri, in modo che attraverso il loro agire — come attraverso il loro parlare, il loro tacere, il loro esempio — diventino testimoni credibili di Cristo» (DCE n. 31 c), e rivelazione di Cristo. La credibilità della testimonianza deve passare attraverso quella personale, poiché la carità, non essendo essenzialmente un’opera, ma una relazione, richiede sempre una dimensione personale, postula sempre la preghiera, la frequenza ai sacramenti, e l’adorazione come espressione suprema del nostro amore e della nostra comunione con Dio. 

Conclusione 

Riassumendo, è importante che, prima di essere un’azione sociale, l’attività caritativa abbia veramente una dimensione ecclesiale, una missione evangelizzatrice che rechi all’uomo l’amore di Dio. Paolo VI aveva ben compreso che lo sviluppo più profondo dell’uomo si realizza nell’incontro con Dio (cf. Lettera Enciclica Populorum progressio, 20). L’Enciclica Deus Caritas est vuole permettere all’uomo di incontrare Dio attraverso il ministero della carità: si tratta di rivelargli che è oggetto di amore infinito da parte di Dio e che la Chiesa si fa strumento di quell’amore per la sua salvezza. Non dobbiamo mai dimenticare che vivere, praticare e rivelare l’amore per far entrare nel mondo la luce di Dio costituisce il cuore del messaggio cristiano. Auspico che le osservazioni e le analisi che abbiamo qui sviluppato possano contribuire a ben comprendere il ministero della carità ecclesiale e a farci impegnare con sempre maggiore responsabilità al servizio dell’amore.  Grazie per il vostro ascolto!

 



[1]  Paolo VI Lettera Enciclica Populorum Progressio, 14, in Lettera Enciclica Caritas in Veritate, 11.

[2]  Ibidem.

[3] Lettera Enciclica Caritas in Veritate, 11.

[4] Esortazione Apostolica Evangelium nuntiandi, 31 AAS 68 (1976) 26 in Caritas in Veritate, 15.

[5] Lettera Enciclica Caritas in Veritate, 15.

[6] cf Giovanni Paolo II, discorso all’Assemblea Plenaria di Cor Unum, 28.11.1978.

[7] cf Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Christifideles Laici,  34

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