Se internet diventa più importante di Dio




George Steiner da parte sua l’aveva profetizzato già anni or sono: l’avvento della rivoluzione di internet avrebbe determinato in poco tempo una svolta epocale non solo nei mezzi di comunicazione sociale ma anche nel modo di pensare e di vivere delle società contemporanee tali da far apparire quelle precedenti uno scherzo e operando un vero e proprio taglio radicale con tutto quello che c’era prima. Nel giro di pochi anni, sosteneva Steiner, si sarebbe guardato a una persona vissuta nel primo Novecento, fosse stato anche un Thomas Mann, come a una sorta di sottosviluppato culturale e ci si sarebbe chiesti come avesse mai fatto chi ci aveva preceduto a vivere senza internet. Ora, con la crescita delle generazioni dei cosiddetti ‘nativi digitali’ vediamo sempre più concretamente all’orizzonte il quadro delineato e come, lontano dai facili ottimismi, gestire i processi (educativi, valoriali e soprattutto comportamentali) che innesca la rete sia di fatto impossibile, altro che strumento neutrale. L’occasione ci è data, tra l’altro, dagli ultimi dati sulla crescita dell’ignoranza religiosa soprattutto tra i giovani e i giovanissimi in Germania, ma non è che in altri Paesi della Mitteleuropa (si pensi alla vicina Repubblica Ceca) le cose vadano poi meglio. Beninteso, il trend può andare assolutamente insieme a risultati scolastici o accademici di tutto rispetto e persino buonissimi o eccellenti. Cosa che non fa che accrescere l’orgoglio dei ragazzi stessi, evidentemente, gli stessi laureati che magari richiesti di elencare i Comandamenti o raccontare una parabola evangelica fanno scena muta. Quello che colpisce, dall’esterno, è il cambiamento delle modalità pedagogiche (tanto nelle modalità quanto nei contenuti) avvenuto in pochi anni: da queste parti l’istruzione, sia obbligatoria che non, ha recepito schemi d’insegnamento che, per privilegiare l’informatizzazione e l’efficienza dei processi ha finito per trattare lo studente al pari di un automa. Si assiste così a esami scritti a iosa a quiz, quasi sempre a risposte chiuse, preparati con un manuale unico, al massimo due, ma non di più, e si va avanti di grado in grado così, senza dover mai preparare un colloquio orale o un elaborato scritto che sia uno. Davvero: in molti percorsi il famoso tema, quello che da noi per esempio ha formato la mente dell’educazione classica, non s’incontra mai, o quasi. Magari si fa l’esame finale al pc, persino con una simulazione in modo interattivo, questo sì, ma il tema proprio no. E ci si presenta così, ‘da grandi’, al mondo del lavoro. Senza aver mai acquisito un’educazione alla lettura e alla riflessione critica, e autocritica, in senso proprio. E se ancora non avete compreso quale sia il collegamento con la religione, o la teologia, o la filosofia, il che da questo punto di vista poi è uguale, non stiamo messi bene neanche noi.

A costo di passare per retrò, non possiamo tacere d’altra parte nemmeno i risultati di alcuni studi recenti dove si valutano gli effetti negativi dell’educazione esclusivamente on-line sui teenager (ancora più diffusa in alcune zone dell’Asia, per esempio): bassa capacità di concentrazione, difficoltà di mantenere livelli alti di attenzione continuativamente, difficoltà nell’elaborare personalmente un pensiero critico, tendenza all’isolamento sociale. Pessimismo eccessivo? Disfattismo? No, tanto più se questi dati si accompagnano, per l’appunto, a una crescente emarginazione pubblica della dimensione educativa religiosa. In effetti, tutto questo confermerebbe due tendenze sociali di massa che hanno un evidente rilevanza anche per l’evangelizzazione: il primo è la de-formazione della mentalità classica e umanistica in favore di quella tecnica, o tecnocratica, che dir si voglia, il che è proprio quello che sta succedendo nel panorama descritto. In questo tipo di educazione materie come la filosofia o la letteratura semplicemente non servono perché fanno parte di un bagaglio culturale in-utile, cioè che non serve a produrre alcunché (almeno nel breve periodo) nella società della tecnica consumistica più avanzata, ed è più o meno la tesi richiamata di Steiner. Il secondo, ancora più significativo, dal nostro punto di vista, è che il mondo della realtà virtuale non è solo lo specchio mediatico a colori di quello reale ma qualcosa di più, oltre che di sinistramente parallelo: l’offerta di potenziale benessere che promette rende di fatto irrilevante qualsiasi domanda su Dio. Lasciamo stare che è solo una promessa e un mero riflesso di apparenza perché in realtà se la sua logica educativa diventa condivisa a livello di massa c’è poco da replicare: così, per dirla con un altro pensatore contemporaneo, semplicemente il bisogno di Dio non diventa più un bisogno, ma qualcosa di superfluo, accessorio, che in ogni caso non cambia la vita di nessuno perché il paradigma della postmodernità 2.0 lo ha reso comunque irrilevante. Per questo, ad avviso, di chi scrive, anche senza cadere nel pessimismo, dire che occorre ‘evangelizzare la rete’ come se la rete fosse una normale aula di confronto simil-giornalistico è un po’ pochino e anche un po’ ingenuo. Se non si tiene presente che la rivoluzione digitale è in primis una rivoluzione antropologica, prima ancora che culturale, secondo noi non si sfiora nemmeno lontanamente il nocciolo del problema: non so, è che noi continuiamo a rimanere convinti che se a Fatima i pastorelli stessero navigando su internet l’angelo quella volta non si sarebbe mai fermato a parlarci. Può essere che sbagliamo, certo, però solo così a occhio, secondo noi non si sarebbe proprio fermato.

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