“Robinson Crusoe” sbarca a Gorizia




L’esistenza dell’uomo è una struttura molto complessa e stratificata che assomiglia a quelle colline chiamate dagli archeologi a “schiena d’asino”: formazioni antichissime create dal sovrapporsi di siti di diverse epoche, da quelli remoti a quelli più recenti. Nella generale vastità di dinamiche e forze che regolano la vita, si possono individuare tre grandi poli intorno ai quali si innerva l’avventura dell’uomo su questa terra: il rapporto con le cose, il rapporto con gli altri, il rapporto con Dio.

Una delle opere che meglio rappresenta, con semplicità, schiettezza e accattivante intreccio, l’interagire di queste tre sfere dell’esistenza, è anche uno dei primi romanzi moderni quanto alla vicenda e allo stile: il “Robinson Crusoe” (1719) dello scrittore britannico Daniel Defoe (1660-1731), da cui è stata tratta una pièce teatrale rappresentata recentemente a Gorizia.

Romanzo di avventura? Di formazione? Di viaggio? Diario interiore di una straordinaria esperienza? Un po’ tutte queste cose insieme, viene da dire considerando i grandi snodi di quest’opera che conserva intatti il suo fascino, il suo messaggio e la sua modernità. Quale modernità? Quella, come sopra accennavamo, della descrizione dell’uomo come realtà vivente, fisica e spirituale, chiamata a coltivare la propria esistenza secondo retti principi di equilibrio tra la sfera delle cose, il mondo delle relazioni con gli altri uomini e il rapporto con il divino sempre avvolto dal mistero. Se viene a mancare una sola di queste tre dinamiche regolatrici e ordinatrici dell’esistenza, l’uomo rischia di precipitare nel caos.

Il protagonista del romanzo di Defoe è un giovane irrequieto e avventuroso che inizia il suo percorso sotto la spinta della passione: passione per il mare, per i viaggi e anche per le sfide. Il primo tratto di strada è dominato dall’empito giovanile sempre proiettato in avanti. Ma viene sempre il tempo della prova, segnato da un evento chiave che spoglia il teatro della vita dei precedenti arredi colorati e accoglienti per lasciarlo vuoto e inospitale, come accade a Robinson Crusoe allorché viene scagliato da una violenta tempesta su un’isola deserta: un mondo nuovo, dove ricominciare tutto da capo, esercitando le più diverse capacità per riuscire a sopravvivere nella solitudine e nell’assenza di risorse. L’intelligenza del giovane e il suo grande cuore saranno il punto di partenza di una progressiva ricostruzione dei tre legami vitali che muovono l’uomo su questa terra. Come prima cosa Robinson crea intorno a sé un ambiente capace di consentirgli un’esistenza vivibile, con il necessario per nutrirsi, vestirsi e avere di che sostentarsi con il proprio lavoro. Infatti riesce, grazie a dei semi salvati dal naufragio, a coltivare un suo orto e ad allevare qualche animale scampato al disastro. Proprio nella progressiva presa di coscienza della propria capacità costruttiva e insieme dell’azione costante, prima quasi ignorata, della mano di Dio, il protagonista trova la grande centratura del proprio essere e pianta nel bel mezzo dell’isola una croce davanti alla quale riconosce la propria dipendenza dal Creatore e alla quale leva ogni giorno le proprie preghiere.

L’incontro con l’indigeno Venerdì, chiuderà il cerchio: dopo l’interazione con l’ambiente — quell’isola deserta che richiama il giardino delle origini ove l’uomo e la donna furono chiamati da Dio all’essere affinché lo coltivassero — e dopo la fondamentale e centrale apertura al divino che colma di speranza e di senso l’azione stessa dell’uomo, Robinson ristabilisce poco a poco, attraverso un’opera educativa, il proprio legame perduto con gli altri. Venerdì è il simbolo dell’umanità sempre bisognosa di essere educata, illuminata e sostenuta, in primis dalla propria fede e quindi dall’interazione con i propri simili. Venerdì rivive in modo speculare il cammino del proprio mentore imparando a relazionarsi all’ambiente, a Dio e al prossimo.

Quando queste tre grandi relazioni si evolvono secondo misura e intelligenza davvero l’uomo può sperare di assaggiare ancora qualche soffio della brezza gentile dell’Eden, allorché Dio vi passeggiava nella sera conversando con le sue creature. Il nostro tempo pare aver perduto l’equilibrio di queste tre sfere dell’esistenza, ammesso che mai l’uomo sia stato capace di una misura perfetta, rinvenibile forse solo nelle utopie o nei romanzi di avventura come il “Robinson Crusoe”. L’antico sapere, di cui il libro biblico della “Sapienza” è uno dei più grandi e ispirati ritratti, riguardava non solo le capacità speculative e spirituali dell’uomo, ma anche da una parte il lavoro fisico, trasformatore dell’ambiente in un grembo accogliente ed amico che ci dà la vita, e dall’altra la costruzione della società. La sapienza è l’arte di far fiorire tutto l’essere dell’uomo, così che il corpo, la mente e il cuore interagiscano felicemente. Preziose sono le mani che lavorano, quanto lo sono le menti che pensano e i cuori che contemplano le opere di Dio. Sembra antica questa sapienza, forse per molti passata di moda, propria a delle civiltà troppo diverse dalla nostra. In verità essa non è semplicemente antica. Essa è universale ed eterna, propria all’uomo di sempre, che nella sua essenza ultima è ad un tempo sempre uguale quanto alle necessità autentiche e sempre diverso quanto ai mezzi per soddisfarle — tagliando fuori dalle cosiddette necessità la nuova tavola periodica dei desideri che si accresce spaventosamente di giorno in giorno, sostenuta dalla tecnologia e dalla scienza che spesso creano desideri artificiosi se non dannosi prima ancora che siano maturati nell’intimo dell’uomo.

Accanto ai passi stupendi di lode della Sapienza divina e dello splendore di coloro che la seguono e la ascoltano, troviamo degli inni intensamente lirici della capacità umana di interagire con l’ambiente traendone cose meravigliose. Così le conoscenze apprese nelle scuole, ci insegna sempre il libro biblico della “Sapienza”, e che contemplano innumerevoli discipline, non sono più importanti della cognizione pratica necessaria a edificare cose e mettere a frutto i doni della terra. Una conoscenza, quella pratica, che riguarda tutto il creato, le stelle, le piante, le piogge, i venti e soprattutto i tesori nascosti nelle sue viscere, ciascuna conoscenza con le sue leggi congegnate per essere capite dall’uomo ed essere assunte a guida della sua esistenza. Il cercatore di metalli e pietre preziose è nella Sapienza una figura quasi sacra in quanto osa penetrare nelle viscere della terra ove si credeva che si trovasse lo Sheol, quel regno dei morti grigio e triste che tuttavia la Sapienza già supera con visioni dell’Oltre vita più grecizzanti che schiettamente ebraiche nella loro sfolgorante speranza. Visioni di luce, di splendore, tratte anche dalla vita quotidiana, visioni che cercano di esprimere la condizione dei giusti dopo la morte attraverso simboli tratti dalla vita quotidiana, come le scintille delle stoppie bruciate nella sera che un soffio di vento sospinge e alimenta. Così sono le anime dei giusti che siedono vicino a Dio, nella sua gloria.

Poiché spesso le filosofie e i diversi sistemi di pensiero, le antropologie e le culture di civiltà disparate hanno posto l’accento ora sull’uno ora sull’altro dei tre poli intorno al quale gravita l’uomo, è bene riflettere sull’importanza di coordinarli e coltivarli in stretta relazione. Un medesimo giardino è questa realtà per noi ancora in cammino, da innaffiare con la medesima acqua della sapienza, linfa che nutre e fa fiorire tutta la nostra vita. Come diceva il mistico e poeta sufi persiano Al-Ghazali (1058-1111), la più grande conquista dell’uomo finché vive su questa terra è quella di riuscire a restare unito a Dio anche nelle più piccole attività quotidiane. La separatezza produce ignoranza. Non l’ignoranza in senso intellettuale, ma esistenziale, essendo la sapienza uno sfondo, una cornice d’oro e pietre preziose che riverbera il suo fulgore inestinguibile su tutte le cose, dalle più piccole alle più grandi, da quelle che ci sembrano sublimi a quelle che ci sembrano inessenziali, e tuttavia non lo sono perché anche il più piccolo punto della tessitura del mondo è frutto della volontà e dell’amore di Dio. Anche una minima faglia nella chiglia di una nave poco a poco la fa affondare, poiché non vi è piccolo o grande, importante o meno sotto l’occhio onniveggente della Sapienza divina.

Il romanzo “Robinson Crusoe” ci guida anche attraverso questo viaggio dietro le righe, verso le sorgenti di un sapere amico che abbraccia tutte le cose per posarle ogni giorno al cospetto di Colui che le ha create e che ogni giorno, anche se non ce ne accorgiamo, le benedice.

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