Ricordando Franz Joseph




Se oggi nell’immaginario collettivo internazionale la civiltà mitteleuropea resta pressoché intatta nel suo perdurante fascino simbolico e culturale, molto lo si deve a lui, e a quello che ha rappresentato, Franz Joseph, per noi italiani Francesco Giuseppe, ma per molti semplicemente  “der Kaiser”, l’Imperatore, perché di nessun altro – almeno nella storia moderna – si ricorda un regno ininterrotto di quasi settant’anni. Tranne che per lui, appunto, di cui questa settimana ricorderemo il primo centenario dalla morte. Eppure, quando pensiamo a lui, nonostante sia ancora relativamente vicino cronologicamente, non possiamo non collegarlo a un altro mondo, anzi a un’altra epoca, distante comunque ben più di 100 anni, talmente tanta è l’acqua passata nel frattempo sotto i ponti. Ed è vero: in quel mondo, nel mondo di Francesco Giuseppe, la figura dell’Imperatore assumeva un profilo pubblico così alto che quasi solo il Papa poteva competervi. E non era, beninteso, un fatto solo di riti e protocolli che si perpetuavano meccanicamente da un componente della dinastia all’altro. Era che l’Imperatore, e quell’Imperatore in particolare, era diventato quasi l’incarnazione del popolo stesso tanto che una notizia di semplice cronaca come ‘l’Imperatore sta male’ poteva finire per addolorare un intero Paese.  Qualcosa – oggi – semplicemente incomprensibile per noi che siamo abituati ai cambi dei capi di governo con una frequenza annuale, biennale, o poco più. Anzi, ci sembrano talmente tanti talora quattro o cinque anni di seguito al governo che non riusciamo proprio nemmeno lontanamente a immaginarci come deve essere un governo di settanta. In quel mondo, poi, il profilo semi-sacrale dell’Imperatore era osservato socialmente come una cosa spontanea e a tratti persino ovvia. Se qualcuno per caso entrava in un café e diceva a voce alta “Oggi l’Imperatore ha detto che” potevi stare certo che tutto il resto dei presenti si sarebbe zittito in un secondo. Figuriamoci quando passava per strada personalmente o si faceva vedere in pubblico: il seguito popolare e l’attesa di vederlo dal vivo erano talmente scontati che potevi immaginare per tempo tutto il percorso che avrebbe fatto la carrozza imperiale solo vedendo il serpentone creato dalla gente sulle strade. Ma, per conto nostro, se dovessimo dire una cosa in particolare che ci manca di lui e di quell’intero mondo diremmo l’innata signorilità, nell’aspetto, come nei modi, come nel linguaggio perché non è vero che tutti gli Imperatori sono stati dei signori, anzi. Lui, però, nonostante qualche giudizio severo di alcuni storici lo fu realmente: tutto, in lui e nel suo portamento, faceva pensare al suo ruolo e non potevi scindere nemmeno per un momento una cosa dall’altra. Anche in questo, forse, dopotutto la differenza con l’oggi è stupefacente.

Anche nel caso dei personaggi pubblici più alti, infatti, abbiamo ormai imparato a distinguere attentamente tra profilo privato e sfera pubblica e, ora con l’uno, ora con l’altro, lo facciamo continuamente, in certi casi anche a ragione, s’intende, ma così facendo abbiamo finito con lo smarrire totalmente la dimensione pubblica della moralità se ci fate caso. Infatti ormai nel privato – quale che sia – non entra più nessuno e anzi se qualcuno lo fa viene subito espulso dai consessi più civili: non lamentiamoci però, poi, se si crea – anche nel corpo elettorale – il consenso alla pratica della doppia morale e al predicare bene e razzolare male. Sia chiaro, Francesco Giuseppe non è stato un santo, come si suol dire, ma dopotutto nemmeno quel despota retrogrado che certa storiografia (anche e soprattutto nostrana, per gli ovvi motivi legati al processo risorgimentale) ha voluto disegnargli addosso poi. Di lui, piuttosto, si raccontano cose che a dirle oggi fanno quasi sobbalzare come il fatto che lavorasse continuamente e non mangiasse quasi mai un pasto completo limitandosi a un piatto frugale a pranzo sulla scrivania di lavoro tra una firma di una legge e l’altra e saltando spesso la cena. O come la sua benevola apertura d’animo: nonostante non fosse un tipo dalla parola facile riceveva sempre tutti e ascoltava volentieri chiunque senza chiudersi mai nelle sue idee personali o nei suoi pregiudizi. Tranne in due casi, s’intende: quando si trovava di fronte degli adulatori spudorati e quando si accorgeva di avere davanti a sé dei gran chiacchieroni. E a ben vedere forse non li sopportava tanto perché fosse un aristocratico ma proprio perché il modo di fare di entrambe le categorie di persone rompeva una delle regole fondamentali del comune buon senso che è poi il primo codice non scritto di ogni buona educazione: ovvero, quando sei tra estranei in pubblico non prenderti mai da solo la parola se nessuno te la chiede. Cose del genere, probabilmente, oggi farebbero sorridere molti, e anche da questo comprendiamo la distanza che c’è con quel mondo. Ma, in fondo, anche per questo quel mondo alla fin fine ci manca e ci manca tanto ora che persino il turpiloquio istituzionalizzato, a ogni livello, non scandalizza più nessuno. Così, quando ogni tanto la nostalgia ci riporta alla mente l’ultimo imperatore la nostra foto preferita nell’album dei ricordi non è tanto quella in divisa, la più celebrata tuttora sui manuali di storia, ma quella in cui Francesco Giuseppe, già anziano, è seduto sulla sedia con i due nipotini piccoli sorridenti che gli sfiorano le ginocchia divertiti e tu guardando quell’immagine pensi che sì, quella era pur sempre la grande famiglia imperiale degli Asburgo, ma a guardare bene quei volti solari immortalati così semplicemente in quella stanza in fondo in fondo avrebbe potuto essere quella di chiunque e nessuno – alla fine – ci avrebbe trovato poi nulla da ridire.

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