Protestantesimo in salsa viennese




Non so se ve ne siete accorti anche voi ma da qualche tempo, soprattutto nelle grandi città, si assiste a un moltiplicarsi senza fine di un singolare fenomeno: quello di tenere concerti in serie di musica (non solo religiosa, anzi, va da sé) nelle Chiese. Un tempo la cosa era limitata perlopiù ai periodi di pausa dell’anno liturgico, prima o dopo i cosiddetti ‘tempi forti’ del calendario, era tutto sommato piuttosto rara, e riguardava esclusivamente temi e motivi sacri. Ora invece non è più così e soprattutto nel Nord e nel Centro-Europa accade sempre più spesso di vedere le bacheche delle Chiese tappezzate di avvisi come neanche al teatro dell’opera della Scala: oggi Vivaldi, domani Gluck, dopodomani Mozart e via canticchiando (è il caso di dire) di questo passo. Voi direte: beh, che male c’è? Che hai contro Gluck o Mozart? La risposta ovviamente è: niente, ci mancherebbe altro. Si tratta del genio musicale europeo al suo massimo, non starà certo qui a ribadirlo il sottoscritto che é un pincopallino qualsiasi. Però, cattolicamente parlando, il punto è un altro. A pensarci bene, infatti, non si capisce proprio come mai un luogo di culto (perché tali sono, o sarebbero, le chiese, fino a prova contraria) debba prestarsi a essere una sala concertistica per gustare i virtuosismi stilistici del classicismo viennese. Il classicismo viennese è una gran cosa, lo ribadiamo, ma che c’azzecca – direbbe Di Pietro – con la casa di Dio? Né vale l’obiezione che, a volte, alcune delle opere rappresentate sono ‘spiritualmente ispirate’ o che il loro compositore personalmente era un credente sincero. Scovando più a fondo nell’evoluzione sociale di questo fenomeno di costume si scopre in effetti che il suo vero retroterra religioso è in realtà protestante, perlopiù anglicano o luterano, ma non solo. E’ all’interno di quelle comunità riformate infatti che storicamente si sviluppa questa idea d’intrattenimento popolare legandola allo spazio religioso in quanto tale senza che nessuno vi trovi nulla da ridire. Anzi, la comunità trova quasi naturale quest’uso prevalentemente di tipo culturale della chiesa al punto che sorgeranno ben presto delle vere e proprie stagioni concertistiche, cadenzate regolarmente per ogni periodo dell’anno e sempre molto apprezzate. C’è solo un piccolo problema in tutto questo. Che cattolici e protestanti non condividono la stessa fede né a livello ecclesiologico né a livello sacramentale per cui – per dirla proprio in due parole due – anche l’idea che soggiace alla costruzione e alla conservazione del luogo di culto non è affatto uguale, né di per sé vicendevolmente sovrapponibile. La cosa più evidente è che in una chiesa protestante non vi abita nessun Dio e non si conserva nessun Corpo di Cristo. Quindi, come ben sa chi vi è entrato almeno una volta, nessuno si inginocchia mai da nessuna parte. Perché mai e davanti a chi dovrebbe inginocchiarsi, d’altronde? In quel luogo non c’è nessuna Presenza e nessun Tabernacolo quindi nessuno adora nessuno. La stessa celebrazione domenicale dell’assemblea, come pure si sa, è un banchetto perlopiù commemorativo della Cena del Signore senza sacrificio né transustanziazione alcuna delle specie ma dove i fedeli si ritrovano fraternamente come comunità. E questo secondo aspetto come rilevanza pubblica sopravanza di gran lunga il primo.

In questo contesto – sottolineiamo ‘in questo contesto’ – quindi, non si vede proprio perché un bel concerto non debba starci, e non stiamo facendo dell’ironia. Se invece trasportiamo tutte queste considerazioni alla dimensione cattolica degli edifici di culto cambia praticamente tutto, come avrete notato. Da noi la Chiesa è realmente la Casa di Dio perché Dio vi abita materialmente con la sua presenza misteriosa e reale al tempo stesso. In più, non solo vi abita ma si offre a noi col suo sangue col suo corpo tutti i giorni dell’anno, non solo la Domenica. Dio è sempre lì e ci aspetta sempre. Santi di prima grandezza come il Curato d’Ars o Padre Pio hanno passato tutta la loro vita in Chiesa, e non è una metafora simbolica. Non si tratta di questioni di carattere spigoloso o di personalità. Se non riuscite proprio a immaginarvi il Curato d’Ars o Padre Pio che si siedono sulle panche delle loro chiese ad ascoltare fischiettando qualche opera viennese non è perché fossero particolarmente strani loro ma perché immediatamente percepiamo che c’è qualcosa che stona in questo quadro. E quello che stona è appunto il contesto che istintivamente suggerisce – o meglio, dovrebbe suggerire – che in Chiesa si offre al massimo un concerto all’Immacolata o al Natale del Signore ma che persino il più geniale di tutti i componimenti profani non si addice a un luogo custodito dagli Angeli e benedetto da Dio, il luogo della Grazia per eccellenza. Immaginiamo che qualcuno storcerà il naso e non sarà d’accordo ma, anche con le migliori intenzioni, continuiamo a essere convinti che il Tempio debba restare la Porta del Cielo, un anticamera unica e speciale del Paradiso e – anche davanti a quello più apparentemente modesto – si debba entrare con un certo timore e tremore. Che insomma una volta varcata quella porta il mondo che ci siamo lasciati dietro le spalle non debba più esistere e che il luogo eretto per la gloria di Dio debba essere sempre ben distinto da quelli in cui si celebrano le glorie, per quanto eccelse, degli uomini. Si chiamassero pure Mozart, Gluck o chi volete voi.

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