“Pronto… sono Matilde”




Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento nel mondo culturale ed artistico italiano fiorirono alcune interessanti e feconde figure femminili. Tra queste spicca la scrittrice e giornalista Matilde Serao (1856-1927), a cui è stata dedicata la mostra “Pronto… sono Matilde” allestita nella nostra città presso il “Museo postale e telegrafico della Mitteleuropa” e dedicata agli apparati di telecomunicazione dall”800 ad oggi.

La scelta di Matilde Serao come ideale madrina dell’esposizione nasce, oltre che dal ruolo fondamentale da lei svolto nel mondo della comunicazione giornalistica — è stata la prima donna italiana a fondare e dirigere un quotidiano, “Il Mattino” —, anche dal fatto che nel 1875 lavorò come telegrafista ai Telegrafi di Stato. La mostra è stata accompagnata da numerosi eventi culturali, tra i quali l’allestimento teatrale di una pièce di e con Giuliana Stecchina che ha immaginato un ideale dialogo tra Matilde Serao, suo marito Edoardo Scarfoglio (1860-1917) e l’attrice Eleonora Duse (1858-1924).

Questo dialogo a tre ci richiama alla mente una temperie culturale molto affascinante e vivace e soprattutto, attraverso la presenza della Duse, un personaggio di allora che conquistò per la prima volta in Italia, nel mondo della cultura e delle lettere, il favore euforico e inebriato delle masse: lo scrittore, poeta e drammaturgo Gabriele d’Annunzio (1863-1938).

Nell’ambiente romano, frequentato dal poeta e scrittore abruzzese negli anni della prima giovinezza e delle prime prove come scrittore e giornalista, andava allora diffondendosi una vita culturale ed artistica effervescente e innovativa. La Serao e il marito Edoardo Scarfolgio erano grandi amici di d’Annunzio e con lui e come lui collaboravano con le numerose riviste fiorite in quel tempo nella capitale. Tra tutte la “Cronaca bizantina”, sia centro di irradiazione del lavoro fervido ed entusiasta di intellettuali ed artisti, sia fucina di idee e di proposte che ancora consentiva agli uomini di penna e di pensiero di guadagnarsi onestamente da vivere con il proprio lavoro e le proprie personali inclinazioni.

La figura di Eleonora Duse, inserita nella pièce della Stecchina, è come un piccolo sistema solare intorno al quale gravitano, attratti da una malia tuttora inspiegabile, gli uomini e le donne più notevoli di quell’epoca. Proverbiale è la sua relazione con Gabriele d’Annunzio che le dedicò, come donna e soprattutto come attrice, molti anni della propria vita. Intorno alla Duse si sono raccolte e concentrate molte delle tendenze culturali del tempo, in particolare quell’area affascinata dall’irrazionale, dal misterioso e dall’imprendibile, propria alla cosiddetta cultura del decadentismo. Una prima nota che lega la più celebre attrice al più celebre poeta e scrittore del tempo è proprio l’appartenenza alla medesima atmosfera decadente, alla sua sensibilità morbosa ed esotica, spinta nelle sue pose più stucchevoli ed enfatiche fino ad un nevrotico e autocompiaciuto parossismo che oggi può far sorridere. Ma allora gli eroi di questa galassia ombrosa ed estenuata, crepuscolare e amante delle tinte tragiche, prendevano molto seriamente questo costume, al punto da viverlo come se l’eccezionale, il romantico e il notturno non fossero una moda transitoria ma qualcosa di costitutivo e di ontologico del loro temperamento.

Due grandi equivoci sono sorti a tal proposito intorno a Gabriele d’Annunzio e ad Eleonora Duse: da una parte la convinzione che nel loro rapporto d’amore, fosse d’Annunzio a tiranneggiare e far soffrire la “disarmata” e innamoratissima attrice, convinzione che negli ultimi anni molti studiosi dell’attrice e del poeta e scrittore hanno iniziato a contestare sulla base di una vasta documentazione prima trascurata; dall’altra l’inquadramento dell’artista abruzzese in una sorta di museo polveroso e dimenticato, debordante oggetti superflui e barocchi, del tutto fuori moda, un po’ in stile Vittoriale e in linea con la passione di Gabriele per le collezioni di mobili, soprammobili e suppellettili tra sacro e profano con cui ornava e riempiva le sue ville, spinto da una sorta di horror vacui e di nostalgia per gli agi e i privilegi dei principi rinascimentali.

In verità come la Duse non fu vittima del poeta ma piuttosto il poeta vittima dell’astuta e ingovernabile attrice, così d’Annunzio non fu uno dei tanti decadenti innamorati del lusso, dei piaceri, inclini ad una sensualità morbosa e a una scrittura paludata e immaginifica.

La vera vittima nella relazione amorosa fu dunque l’autore di “Il piacere”. Come si evince da numerosi documenti tratti soprattutto dagli Epistolari di entrambi, il poeta tra il 1894 e il 1904  si dedicò molto al teatro traendo ispirazione unicamente dalla Duse, sua amante ma anche sua insostituibile musa ispiratrice. Ma la Duse non corrispose affatto a questo trasporto sincero, e non solo sul piano artistico ma anche sentimentale. Sempre in viaggio con la sua compagnia, dotata di un fascino scenico che mandava letteralmente in delirio i teatri, inaffidabile, lamentosa e stucchevole, bugiarda e manipolatrice, la Duse tenne sulla corda l’amante per anni, sottraendosi sempre all’ultimo minuto agli impegni artistici presi con il d’Annunzio drammaturgo. Scritti per lei, i suoi drammi dovevano riformare il teatro italiano su quello antico consegnando all’Italia una propria epopea scenica dei miti moderni e una via verso l’unità e la forza della nazione sul piano anche politico. Per lui Eleonora Duse era l’unica attrice in grado di trasmettere l’afflato mitico, epocale e nazionale del tuo teatro tragico. Ma la Duse sembrava più incline a servirsi della popolarità dell’amante per accrescere, se mai fosse possibile accrescerla ancora di più, la propria fama, godendo della luce irradiata su di lei dal genio dannunziano. Il poeta invece, che l’amava profondamente soprattutto sul piano intellettuale ed artistico, era più incline a costituire un sodalizio autentico e proficuo con la donna che a sfruttarne le doti. Certamente a Gabriele, uomo scaltro che non aveva problemi né pregiudizi di sorta nel farsi pubblicità con tutti i mezzi possibili, sarebbero andati stretti i panni dell’uomo puro che sacrifica se stesso all’amore della sua donna e della sua patria. Anche lui aveva di che guadagnare a legare la Duse al suo teatro, ma nonostante ciò la sua passione per la donna e per il teatro fu comunque autentica e sostenuta nel tempo con dedizione e pazienza. In molte lettere egli supplica l’amante di mantenere le promesse fatte, mentre lei con lunghi giri di frase, sospiri e lamenti stucchevoli e falsi accampa scusa dietro scusa e tira dritto per la sua strada. È sempre in viaggio, sia in Europa che nel resto del mondo, superiore ad ogni altra attrice acclamata, perfino alla bellissima e bravissima rivale francese Sarah Bernhardt (1844-1923).

A detta dei contemporanei era sufficiente che lei entrasse in scena perché il pubblico ne fosse immediatamente ipnotizzato. I suoi gesti lenti, le pause infinite in cui stava in silenzio, le sue parole spesso improvvisate al cui suono, più che alla loro fedeltà all’originale e al loro senso, affidava quasi del tutto la comunicazione, il suo stesso modo di acconciarsi con abiti ampi e quasi sformati, senza un filo di trucco e i capelli raccolti disordinatamente, perfino il volto sbiadito e velato, con quei suoi occhi stupefatti e trasognati per pura posa: tutto, anche ciò che avrebbe dovuto renderla insignificante se non indifferente al pubblico, diventava in lei ipnotico, magnetico ed irresistibile, quasi fosse una maga che con inganni e tranelli invisibili mandasse in trance la folla. Le bastava restare a lungo immobile in silenzio in mezzo alla scena perché il pubblico scaturisse in applausi ebbri e prolungati. Lei era la “divina” e un suo minimo cenno teneva tutto il pubblico con il fiato sospeso e il cuore in dolcissimo tumulto. È l’eterna storia del personaggio leader o trascinatore di folle che, per quanto lo si analizzi e lo si scomponga nelle singole parti per vedere da dove viene la sua potenza attrattiva, continuamente sfugge e si nega rimanendo un enigma. Lo si può considerare da un punto di vista sociologico, psicoanalitico, filosofico o comportamentale, ma gli esiti, anche se brillanti, infondo si riducono a pallidi raggi che sfiorano appena la superficie di un continente quasi del tutto sommerso. Questa energia sottile che opera sulle menti e sui cuori ha a che fare con il mistero del fascino, piuttosto che con la bellezza pura e semplice, intesa in senso classico, secondo criteri di armonia, proporzione e grazia. Di qui l’influenza personale e privata che la Duse esercitò anche sull’allora idolo delle donne – anche lui affascinante e non propriamente bello — Gabriele d’Annunzio che fece letteralmente impazzire molte delle sue donne, rovinando per sempre le loro esistenze. Questo accentua ancora di più il fascino dell’attrice, visto che riuscì a tenere testa ad un uomo che le donne seguivano, tutte, senza distinzione, come i bambini il pifferaio magico della fiaba.

L’altro equivoco che a lungo ha adombrato la figura del poeta e scrittore abruzzese riguarda il valore della sua opera. Come già dicevamo, fino a pochi decenni addietro d’Annunzio era considerato una sorta di cimelio datato, certo prezioso e ricercatissimo per il tempo in cui visse, ma oggi passato di moda. Italo Svevo (1861-1928), Umberto Saba (1883-1957), Luigi Pirandello (1867-1936), Giuseppe Ungaretti (1888-1970) ed Eugenio Montale (1896-1981), insieme a molti altri scrittori e poeti, hanno ancora ampio spazio nelle antologie scolastiche e vengono presentati come dei rivoluzionari che hanno cambiato per sempre la storia della letteratura. Pur aderendo ai fermenti del loro tempo, secondo questa ottica essi hanno saputo dire parole universali e che non invecchiano sulla condizione umana e soprattutto si sono avvalsi di una scrittura del tutto nuova, aderente anche nella forma ai vastissimi spazi bui e irrazionali della coscienza. Ma se leggiamo attentamente l’opera di d’Annunzio possiamo constatare che questa rivoluzione è stata da lui anticipata e sviluppata in un linguaggio raffinato, sottile e straordinariamente moderno. Fu sensibilissimo alle influenze delle letterature e culture europee più diverse, da quella francese con il romanzo psicologico alla Paul Bourget (1852-1935) e il simbolismo poetico, a quella russa con l’epopea di Lev Tolstoj (1828-1910) e l’impietosa scarnificazione dell’esistente di Fëdor Dostoevskij (1821-1881), per arrivare all’area tedesca che lo conquistò con la furia iconoclasta di Friedrich Nietzsche (1844-1900) riassorbita in una sorta di umanesimo rinascimentale aristocratico ed eroico. In questo senso con i suoi romanzi, le sue poesie e i suoi drammi si impegnò in un’opera perseverante di svecchiamento della nostra cultura risorgimentale, piuttosto angusta, discontinua e oscillante tra storicismo paludato e romanticheria pseudo-gotica, grottesca e sognante.

Fece dunque proprie le inquietudini e gli aneliti della grande cultura europea,  variandoli sulla tastiera dei massimi temi umani ed esistenziali cari alla sua intelligenza e al suo cuore. Nella sua scrittura sono anticipati, pur nella varietà delle trame e dei personaggi comunque intinti nei colori accesi della sua polifonica sensibilità e nel tormentato e demonico élan vital dell’epoca, il flusso di coscienza, la stratificazione dell’interiorità, l’analisi interiore esasperata e implacabile, frutto di uno studio assiduo e appassionato del fenomeno umano e delle contrastanti e contrastate dinamiche della vita. Anche nella poesia fece risuonare l’eco dei simbolisti come Charles Baudelaire (1821-1867) e Stéphane Mallarmé (1842-1898) e anticipò in molte sue liriche, musicalmente perfette per essenzialità e densità evocativa — sorta di pennellate preziose e sottili tracciate in filigrana nel silenzio —, la voce dei futuri ermetici. Leggere o rileggere Gabriele d’Annunzio, singolare erma bifronte tra letterato mondano ed esigente e asceta di una scrittura ininterrotta e avida di sacrifici se non di mortificazioni corporali (altro aspetto poco noto relativo ai suoi metodi di lavoro), riscoprirlo nella sua integrità e integralità è oggi una sfida. Un’opera di scavo e di discernimento, un’archeologia alla ricerca di tutte le cose antiche e nuove che il poeta e scrittore, grande studioso, infaticabile nella scrittura fino alla sfinimento e dotato di un sapere vastissimo, ha lasciato nelle sue pagine. Debordanti certo, come un fiume in piena o una cascata, ma con molte perle e pietre preziose nascoste tra i fondali.

 

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