Pillole di nuovo umanesimo in Germania




In giro si parla molto, in questi ultimi tempi, della necessità di costruire un ‘nuovo umanesimo’. Ne parlerà anche il prossimo convegno ecclesiale della CEI in programma a Firenze, tanto per dire, ma la vera notizia, e il motivo per cui ce ne occupiamo oggi qui, è che se ne sta parlando anche altrove e perdipiù proprio dove non te l’aspetteresti mai. Prendiamo la Germania, per esempio. Ha fatto un certo scalpore, da ultimo, il recente intervento di Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz – ripreso in settimana anche nell’edizione italiana de L’Osservatore Romano – intitolato proprio “Nuovo umanesimo” in cui la studiosa riesamina a grandi linee il dibattito sulla questione femminile in Europa negli ultimi decenni per arrivare fino all’oggi e dire che, parafrasando al contrario Remarque, finalmente c’è qualcosa di nuovo a Occidente. La filosofa, studiosa di Guardini e specialista di comparatistica religiosa, è partita dall’immancabile Simone de Beauvoir per arrivare a Edith Stein, passando pure per Julia Kristeva eSibylle Lewitscharoff, e dire che il vero dramma della secolarizzazione occidentale allo stato attuale è che questa ha prodotto – testualmente – una “civiltà nella quale il discorso sul ruolo della madre è ormai carente” con la conseguenza deleteria che sia l’identità più intima che lo straordinario potenziale creativo della donna sono stati gravemente danneggiati. La situazione anzi sarebbe ormai talmente critica che occorrerebbe elaborare con assoluta urgenza un “nuovo discorso sulla maternità” che torni a riflettere seriamente sull’elemento del materno che co-esiste e spiega in parte pure la crisi sociale postmoderna della femminilità in quanto tale. E per non buttarla sul religioso Gerl-Falkovitz cita dei passi in proposito proprio della Kristeva, guarda un po’, non  esattamente una discepola di Madre Teresa di Calcutta, per capirci. Ma anche il resto dell’intervento ci pare onestamente tutto da leggere e meditare. Tornando infatti al suo Paese la filosofa riprende anche il discorso di Dresda del marzo scorso della Lewitscharoff che – per chi non lo ricorda – scatenò veementi reazioni. La pluripremiata scrittrice in quell’occasione attaccò infatti frontalmente il ‘mercato indecente’ dell’ingegneria genetica considerandolo apertis verbis un’umiliazione vergognosa sia per le donne – il cui corpo viene manipolato senza che nessuno si scandalizzi – sia per gli uomini ‘donatori’ che si prestano alla procedura d’inseminazione, etichettati con espressioni irriferibili ma proprio per segnalare all’opinione pubblica sempre più assopita che esiste nonostante tutto, o dovrebbe esistere, una soglia pubblica del senso del limite. In particolare Lewitscharoff, che in gioventù fu marxista e ora è di confessione evangelica, prese di mira il “delirio di fattibilità” che porta a considerare le persone come cose e, più di tutti, infine schiavizza proprio i bambini che in questo contesto diventano né più né meno che merce da ordinare per soddisfare i desideri personali dei genitori.

In tutto ciò, come si vede, finora non abbiamo ancora pronunciato la parola ‘Dio’. Da una parte lo abbiamo fatto apposta, per mostrare che il livello del discorso è preliminarmente di tipo squisitamente antropologico e culturale, dall’altra – tuttavia – dobbiamo pure registrare che le cose senza Dio non tornano affatto nemmeno in questo caso. Vediamo di spiegarci meglio: tutto il dibattito in corso, soprattutto sui mass-media che lo riportano, spesso viene inteso come una battaglia di tipo aut-aut fra due fronti radicalmente antagonisti e alternativi: quello dei sostenitori delle ‘ragioni’ della natura e quello dei sostenitori delle ‘ragioni’ della cultura. Peccato che le cose, a ben vedere, non stiano affatto così e non solo perché niente è mai solo ed esclusivamente tutto ‘natura’ o tutto ‘cultura’ ma poi anche e soprattutto perché manca un terzo elemento, che infine giustamente Gerl-Falkovitz aggiunge, ovvero “la provenienza e la destinazione dell’essere” che precedono, accompagnano e seguono la natura, o la cultura, di cui si parla. In altre parole, resta pienamente “irrisolta” la grande domanda sul Creatore ultimo della vita e sulle origini di tutto questo processo: nessuno ‘si fa’ mai da solo, anche se oggi la biomedicina tende sempre più ad affermarlo. In ogni caso, noi non siamo stati fatti così e neanche coloro che sono venuti prima di noi. D’altra parte, su coloro che verranno dopo neanche possiamo onestamente esprimerci, per ovvi motivi. Che cosa resta allora? La filosofa cita una traccia, ancora di una donna, cioè Edith Stein, e ci pare la conclusione più degna del suo discorso. Le pagine della Stein sulla fenomenologia del corpo e sulla natura specifica dell’identità femminile sono obiettivamente ancora formidabili, per chi le volesse ascoltare, e a parere nostro renderebbero ragione di molti interrogativi. Certo, bisogna però essere disposti quantomeno ad ammettere la possibilità che il mondo sia un po’ più complesso e articolato di ciò che vediamo superficialmente a occhio nudo, soprattutto meno ideologico, e che persino in un tema come quello dei ruoli – innati e costruiti – della donna entrano variabili non immediatamente materiali come ‘vocazione’, ‘anima’, ‘essere’, ‘spirito’, ‘destino’, se proprio non si vuole utilizzare la parola ‘spirituale’. Vista la posta in gioco, comunque, crediamo che se ne parlerà ancora a lungo; per ora speriamo solo che, almeno in Germania, le prese di posizione di Gerl-Falkovitz e Lewitscharoff – che tra l’altro si aggiungono a quelle già forse più note negli ultimi tempi di Gabriele Kuby e Birgit Kelle – non restino dei casi isolati ma diano magari la stura a un movimento più ampio e anche più popolare, perché no, in grado di sostenere realmente un’operazione di resistenza culturale poi attivamente sul campo. La cosa interessante, per ora, è che sono tutte donne, anche piuttosto diverse come formazione, che non le mandano a dire e non sono decisamente omologabili in nessun modo, nemmeno per i lori avversari: insomma, ne vedremo delle belle.

 

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