Peter Hahne e la festa che è finita




Una delle cose che non ho mai capito dell’ecumenismo è perché debbano essere sempre i cattolici a fare un passo indietro e non gli altri a fare un passo avanti. Chi l’ha stabilito? Forse che il passato degli altri (mettendo da parte bazzecole come l’ostinata professione di eresie o la negazione di dogmi) abbia meno scheletri degli armadi dei nostri? Ricordo tempo fa un incontro con uno studioso di storia, persona squisita nei modi e pure coltissimo, di fede ortodossa. Quando gli chiesi com’era promosso dalle sue parti l’ecumenismo e che cosa facessero in concreto mi rivolse uno sguardo pietoso, come quello che forse si dava un tempo ai lebbrosi o gli appestati, o giù di lì. Della serie: questo (cioè, il sottoscritto) deve essere pazzo, pensa davvero che a qualcuno dei nostri importi dell’ecumenismo! In ogni caso, difficile sfuggire all’impressione che quel tema non fosse decisamente all’ordine del giorno, ammesso che ci fosse mai stato prima. Magari sono stato sfortunato io, per carità. Fra l’altro gli ortodossi sono davvero quelli a noi più vicini dottrinalmente e liturgicamente, quelli meno distanti nella professione di fede. Però, per dire come va il mondo. I protestanti, invece, negli ultimi tempi si sono allontanati sempre di più. La libera interpretazione della Bibbia, alla fine, ha di fatto portato a una libera codificazione di una propria morale, svincolata da ogni precetto assoluto e per questo tanto cangiante come le mode del mondo, in ossequio al politicamente corretto. In questa situazione di confusione, non può che confortare il fatto che comunque, nonostante tutto, anche da quelle parti qualcuno faccia qualche passo verso di noi. E’ il caso del teologo evangelico tedesco Peter Hahne (per anni membro del Consiglio della Chiesa Evangelica di Germania – EKD), volto molto noto anche dell’emittente televisiva nazionale ZDF, che da qualche tempo ha iniziato a mettere in discussione quella che Papa Benedetto XVI ha definito “dittatura del relativismo”. E siccome lo fa da un pulpito insospettabile come quello protestante e decisamente antiromano, qual è quello di casa sua, parlandone pure in prima serata in tv e scrivendo libri da milioni di tirature, il caso fa discutere.

Una delle sue ultime fatiche, il pamphlet incendiario La festa è finita. Basta con la società del divertimento (Schluss mit lustig. Das Ende der Spaßgesellschaft) tempo fa ha letteralmente diviso la Germania intera per mesi. Il motivo è presto detto: Hahne non è uno che le manda a dire. La descrizione che emerge in quelle cento pagine del Paese che per tanti secoli ha dato scienziati, filosofi, musicisti e poeti all’Europa è a dir poco devastante. La Germania, dice il teologo-scrittore, soprattutto dopo la rivoluzione culturale del 1968, è diventata un luogo astratto da inventare ex novo più che la terra da conservare ereditata dai nostri padri: un posto, soprattutto nelle grandi aree metropolitane, al limite del surreale, fatto di sballo continuo, giorno e notte, senza limiti, in preda a un continuo raptus irrazionale intriso di edonismo e secolarismo dagli effetti talmente nichilistici che farebbero impallidire persino Nietzsche. Parole come dovere, sacrificio e rinuncia sono state espulse dal vocabolario pubblico al punto che invano si cercherebbe in giro qualcuno che ne comprenda seriamente il significato. Soprattutto, per Hahne la società post-sessantottina e l’indubbia affermazione che questa ha conseguito sul piano culturale, dei comportamenti e dei costumi, ha generato per la prima volta nella storia del Paese una generazione che guarda spasmodicamente all’arrivo del fine-settimana come fosse la meta ultima dell’esistenza. Sembra assurdo ma è così.

Il fine-settimana tedesco è infatti diventato un gigantesco sabba, di rave-party e love parade (i raduni di massa fatti di droga e libertinismo senza limiti, per intenderci), che vede partecipare attivamente milioni di giovani, in teoria la futura classe dirigente del Paese. Ogni tanto poi succede la tragedia perchè qualcuno ci muore, e allora sulla scia dell’emozione scoppia il dibattito nazionale, ma passa qualche giorno e tutto torna come prima. E come gli struzzi si torna a mettere la testa sotto la sabbia, convincendosi che facendo così il quadro della realtà cambierà. Si piangono quelle morti atroci e insensate ma nessuno è in grado di mettere in discussione la falsa concezione di libertà che sta dietro a quelle morti. Il Paese è come immobilizzato, incapace di tornare indietro. Letteralmente. Ora, dire che ogni tanto, rispetto a certe cose, si può anche tornare indietro (o come qualcuno potrebbe dir meglio, tornare al reale) è una bella responsabilità, voi lo capite. In un Paese in cui a contestare la mentalità dominante si può persino finire con l’essere accostati a Hitler non è una bella cosa. Eppure il messaggio di Hahne arriva lo stesso in tutta la sua forza dirompente: se da una parte la società post-sessantottina rifiuta ogni sacrificio e rinuncia espellendo la morte dalla sua quotidianità, dall’altra parte resta viva, scolpita nella memoria, l’immagine dolorante degli ultimi anni di Giovanni Paolo II che al dolore e alla morte ha ri-dato un significato, pubblicamente, e con questo ci ha ricongiunto con una dimensione fondamentale dell’essere umani. Insomma, “ciò di cui abbiamo bisogno non sono gli arbitri, ma gli attaccanti. Uomini che si mettano in gioco, che si rimbocchino le maniche e si diano da fare. Abbiamo bisogno di portatori di speranza, non di portatori di preoccupazioni”. A parte l’incipit di sapore ‘calcistico’, parrebbe benissimo un testo di Benedetto XVI e invece è Hahne. Ma da questo punto di vista ce n’è per tutti: per dare lustro alle sue provocazioni infatti l’autore, apologeticamente si direbbe, rispolvera i nomi più improbabili mettendo in crisi gli ultimi tabù del politicamente corretto. Per esempio, prendete questa frase:la politica senza teologia è assurda. Tutto ciò che ha a che fare con la morale e con l’umanità fa riferimento al messaggio biblico”. Chi l’ha detta? Un Papa? Un Cardinale? Un Dottore della Chiesa? Macché: sono parole di Max Horkheimer, il famoso filosofo ebreo, fondatore della Scuola di Francoforte, pronunciate a qualche mese dalla morte, in una sorta di testamento per i posteri. Come dire: meditate gente, meditate.

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