“Perle migrandi” di Giada Devuno




La vera poesia la si riconosce subito. A volte basta solo sfogliare le pagine di un libro di liriche per avere l’immediata e chiara intuizione che tra quelle strofe, quei versi e quelle singole parola qualcosa è autenticamente accaduto. Sfogliando l’agile volumetto di liriche di Giada Devuno, dall’evocativo titolo “Perle migranti” (Giuliano Ladolfi Editore, 2014, pp.48, euro 10,00), ci sentiamo subito avvolti e dolcemente trascinati in quel regno sottile e vibrante che è proprio solo dell’autentica poesia.

Giada Devuno è nata a Trieste nel 1984. Laureata in Legge, ha coltivato sin dall’infanzia la sua passione per la scrittura e la fotografia. “Perle migranti” è la sua prima opera in versi. Che si tratti di poesia autentica lo capiamo subito dal ritmo armonioso del verso, dalla scansione leggera della strofa, dal succedersi di parole mai scontate. Qui ogni parola è un soprassalto, un suono e un significato inatteso, un assaggio estetico che non ci aspettavamo. La banalità e la prosa sono il rischio più grande di chi vuol fare poesia. Ogni volta che una poesia narra invece di evocare e facilmente si adagia in un dettato prevedibile e scontato, allora, per dirla con Rilke, “non è Orfeo che canta”.

Giada Devuno è ben lontana da tutto ciò perché le sue parole sempre ci sorprendono, come le sue emozioni, i sussulti del suo ricco mondo interiore, la sua percezione delle cose.

Il suo dettato lirico avvolge il mondo in tutta la ricca gamma di incontri, di esperienze dolorose o felici, di sentimenti e di sogni, di disinganni e di speranze, intessendo una rete dorata di rimandi, corrispondenze, richiami continui. E la sua parola è rara, elegante e preziosa, specchio dalle cose evocate nella loro quintessenza e nella loro fragranza segreta.

Come la stessa poetessa indica nella breve introduzione alla silloge, la poesia di “Perle migranti” fa propria l’immagina dell’ostrica che trasforma ogni “corpo estraneo” in involucri di lucente madreperla. Come un’ostrica infatti, Giada risponde all’irruzione di tutto ciò che dal mondo esterno le entra nel cuore, trasformandolo in “perle migranti”. Nulla va perduto, ogni cosa viene assunta e trasfigurata, scavata fino a farne zampillare l’essenza, lo stesso dolore viene decantato e cangiato in un presagio di luce e di speranza.

L’autrice trascorre sul mare della vita danzando con le parole sulle creste spumose del mondo fluttuante delle apparenze. E di volta in volta si inabissa, per poi riemergere con una nuova perla.

Suoi sono i grandi temi della lirica classica e dell’ermetismo novecentesco, declinati con l’originalità di un talento verdeggiante: il tema del viaggio (“Verso l’areoporto”), dell’impermanenza del mondo e dell’incessante incertezza dell’esistere (“Solstizio”, “Cartolina illustrata”, “Soggetto smarrito”), il motivo ricorrente del ricordo e della nostalgia connesso all’esperienza della sofferenza (“Josephine”, “Mormorazione”, “Mediolanum”, “Frammenti di specchio”) e un’elegiaca melodia di fondo che canta comunque e ovunque la bellezza e la sacralità della vita (“Trifogli”, “Libero arbitrio”, “Elegia per Akihito”).

Sperimentando poeticamente l’azione corrosiva del tempo l’autrice non cede mai alla desolazione o al pessimismo, ma sa leggere comunque tra le schegge dei tanti specchi infranti della sua memoria la sottile polvere d’oro che sempre rimane: «Ricorda solamente / che noi non siamo rondini, / ma fenici dentro al Sole…» (“Migrazione della memoria”).

Saggia e profonda, l’autrice si fa spigolatrice di gioia anche nei campi della tristezza, ove crescono i “trifogli” di cui spesso ignoriamo “le autentiche fortune” (“Trifogli”). E anche quando il giorno è avanzato e vi è sin troppa luce, il firmamento con la sua scorta di misteri e segrete bellezze continua a pulsare nei suoi occhi: «Se pur celate, anche di giorno /nel cielo cantano / infinite stelle» (“Palingenesi”).

Questa aspirazione alla bellezza suggella una vocazione che fa proprio l’anelito del cercatore d’oro e di gemme che sonda le viscere della terra e conosce bene l’arte di sbozzare il puro diamante imprigionato nella grigia pietra e nel fango.

Molto vicina alla sensibilità della poesia giapponese, Giada Devuno sì che fa sentire “il canto di Orfeo” nel suo canto, trattenendoci sul filo della sua armonia con le perle riportate dai suoi viaggi nei profondi oceani della vita. Delicata e leggera, come un’ape distilla il miele dal giardino della vita, donandoci sempre un presagio di segreta felicità, come in quest’immagine delicata e fuggitiva: «Bevono in silenzio gli steli. / L’inganno che tutto sia immobile / si scioglie / nell’acqua che minia i sassi del fiume» (“Kurm”).

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