Peccati e virtù oggi




Quante persone oggi ricordano ancora e danno credito all’antica classificazione settenaria dei peccati capitali e delle opposte virtù teologali e cardinali? A guardarsi bene intorno sembra che l’oblio e il discredito regnino sovrani. La prima conseguenza è una diffusa negligenza verso l’educazione etica dell’uomo abbandonato sempre più a se stesso e ai capricci del proprio Io. Anzi, complici la psicologia e la psicoterapia radicate in una falsa idea di libertà e in una cultura poverissima di ideali, molti degli antichi vizi e peccati sono divenuti facoltà e potenzialità da coltivare ed esprimere. Le virtù — quelle teologali della fede, speranza e carità e quelle cardinali di giustizia, fortezza, temperanza e prudenza — a loro volta sono state trasformate in imposizioni sociali e storiche che comprimono e uccidono la creatività e le potenze vitali dell’individuo. Così gli antichi “demoni” sono stati inghirlandati e incoronati, e gli antichi “angeli” invece spodestati ed esiliati.

Ai “Vizi antichi e nuovi” sono dedicati gli 8 appuntamenti di “Presenza e cultura” presso “Casa Zanussi” di Pordenone, da ottobre 2016 a maggio 2017. Organizzati annualmente dalla diocesi di Pordenone, questi incontri affrontano le tematiche più cruciali relative al rapporto tra la fede e il mondo contemporaneo. L’idea di concentrarsi quest’anno su vizi e virtù antichi e nuovi risponde certo ad un bisogno di riflessione e di approfondimento etico molto urgenti. Questa urgenza nasce non solo dall’oblio in cui è caduta generalmente l’idea di peccato e di colpa, ma anche dalla trasformazione in cosa buona di ciò che un tempo era giudicato cattivo e pernicioso. Si capisce che è una questione culturale, antropologica, ma ancora di più esistenziale.

È certo improponibile una ripresa letterale delle esortazioni imperiose e intimidatorie degli antichi trattati di morale con il loro linguaggio violentemente censorio e furiosamente indignato. La forma e la sensibilità sono datate, il tempo afferra ogni cosa e la rimodella di continuo. Ma il bisogno di un insegnamento che orienti al meglio l’evoluzione interiore della persona è universale e indipendente dai cambiamenti epocali. Sempre l’uomo si è confrontato con se stesso, con le proprie capacità, i propri aneliti, le proprie possibilità di pensiero e di azione. Immerso nel magma della storia, condizionato dalla natura e capace di cultura, in grado di distinguere per una sorta di scienza infusa o di superiore grazia il bene dal male, l’uomo ha sempre avuto bisogno di un sistema di leggi e di un’etica su cui calibrare il proprio essere ed agire. Così lo schema settenario dei peccati e delle virtù a lungo, per lo meno sino alle soglie dell’età moderna, gli ha garantito un termine di paragone chiaro e autorevole con cui confrontarsi.

Se un uomo non cerca di conoscersi e di conoscere, non arriverà mai ad essere veramente e profondamente umano, ovvero dispiegato e realizzato nel destino e nel fine a lui propri. La sua vita sarà solo un agitarsi inutile all’interno di uno spazio illusorio, senza profondità, senza prospettiva. Per trarre da un blocco di pietra una statua ben modellata e armoniosa sono necessarie sia l’ispirazione creativa sia delle regole precise da seguire. Così per trarre dal groviglio di pulsioni, forze e capacità umane non ancora ben plasmate e indirizzate una persona compiuta e realizzata, è provvidenziale disporre di un sistema di conoscenze e di leggi guida. Queste conoscenze e leggi, tra le quali sul piano etico e spirituale spicca il lezionario dei peccati capitali e delle virtù teologali e cardinali, sono dei portolani e delle mappe a più ampio raggio per navigare nella direzione giusta nel modo più sicuro possibile.

Oggi non esistono quasi più queste pietre angolari, il padre spirituale che cura la salus animarum è stato sostituito dallo psicologo che lavora in prevalenza al livello più superficiale della psiche. Istinti e impulsi, per lo più legati alla parte animale dell’uomo, la fanno da padrone e vengono portati alla luce, favoriti e promossi come forze positive degne di espressione. Il ritornello del “sii te stesso” e del “non è un mio problema” sono le regole auree con cui i nuovi gestori della mente e dell’emotività umane cercano di giovare alle persone in crisi. Ma senza un equipaggiamento completo di tutto il necessario non è possibile scalare la montagna impervia della vita. È come se si insegnasse alla gente ad avventurarsi in mare o ad arrampicarsi sulla nuda roccia dei burroni fino alla cima a piedi scalzi, senza strumenti e senza preparazione. Come esiste una palestra in cui si esercita il corpo per mantenerlo tonico e sano, esiste anche una palestra spirituale in cui si esercita la nostra parte spirituale per rafforzarla ed illuminarla. In questo senso l’antropologia inscritta nello schema dei peccati capitali e delle virtù cardinali dovrebbe essere, con i dovuti aggiustamenti formali sulla base della nostra sensibilità e della nostra cultura, la cassetta degli attrezzi con cui si ripara ciò che è rotto o si mette bene a punto ciò che è necessario per una vita degna di essere vissuta.

Un tempo l’uomo veniva cresciuto ed educato nel discernimento delle proprie colpe, dei propri vizi e delle proprie risorse buone. Era messo a parte, grazie agli insegnamenti della fede, della natura sua propria con tutti i chiaroscuri, i demoni e gli angeli operanti nel suo profondo. Oggi la nozione di colpa è considerata una perniciosa e antiquata sopravvivenza del passato, i vizi da combattere e le virtù da coltivare sono stati derubricati, il concetto stesso di evoluzione interiore e di iniziazione spirituale — la meta di ogni uomo chiamato a modellare nella creta grezza della propria materialità l’immagine e la somiglianza a cui Dio ha chiamato le sue creature — è stato rovesciato: vale a dire che quelli che un tempo erano vizi (collera, lussuria, invidia, etc) oggi sono presentati come potenze psichiche naturali e genuine a cui dare voce e forma, pena la nevrosi e la frustrazione del proprio vero Sé. Il Sé dunque non è più l’apice illuminato dell’anima, la vetta inondata di sole, ma il fondo limaccioso e carico di detriti della nostra sfera istintuale. Liberare quest’ultima, congedando definitivamente la nozione di colpa e di inclinazione costitutiva a compiere il male, è la via seguita dalla nostra società.

Tra le virtù, così impopolari oggi e presentate spesso come inibizioni che incatenano e frustrano la vitalità iridescente della vita, quella che sta impallidendo ogni giorno di più è la carità, ovvero la considerazione dell’altro, l’empatia con il suo soffrire, la comprensione dei suoi mali fisici e spirituali. Ognuno “lavora” per  se stesso. Papa Francesco giustamente ha colto in questa indifferenza ed egoismo il massimo male del mondo contemporaneo: “sono forse io il custode di mio fratello?” è la grande giustificazione dell’egoismo. “Che me ne importa?”: la consapevolezza che siamo tutti legati in un medesimo corpo e che il male di una parte provoca sofferenza all’intero organismo è quasi del tutto tramontata. E non perché sia scomparsa la costitutiva inclinazione umana al “prendersi cura” — la sostanza ontologica che secondo Heidegger può riscattare l’individuo sommerso dal mondo del “si” cioè del si dice, si fa, si crede. Essa è stata imbavagliata e nascosta ad opera di continui indottrinamenti di segno contrario, per cui l’uomo diventa ogni giorno meno uomo senza saperlo e insieme più infelice e solo, perché amore e cura per l’altro sono la sua risorsa costitutiva e primaria. Se la elude — e l’oblio del peccato e della forza risanante della virtù ha un ruolo primario in questo addormentamento dell’uomo alla parte migliore di se stesso —, se ogni giorno è spronato a fare il contrario, la sua vita interiore si guasta e l’insoddisfazione illividisce l’anima.

Siamo creati capaci di distinguere il bene dal male e di trarre gioia dalla luce e sofferenza dalla tenebra, quindi tutti abbiamo bisogno di un’etica che ci aiuti sia ad auto-comprenderci e a strutturarci in armonia con il nostro fine, sia a separare dentro di noi la zizzania dal grano, sradicando e bruciando la prima e coltivando e innaffiando il secondo. Ma se nessuno ci insegna più a distinguere la prima dal secondo la nostra anima assomiglierà ad un campo infestato da erbacce in cui non crescerà più alcun fiore, il sole più non arriverà a fecondare la buona terra e la pioggia a dissetarla.

 

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