Ortodossia e nazionalismi




Ogni tanto qualcuno va in luna di miele con l’Ortodossia. Nel senso di Chiesa Ortodossa, vogliamo dire. Non molto spesso, per la verità, ma in tempi come quelli che stiamo attraversando nemmeno di rado. In ogni caso, il fenomeno merita qualche riflessione. Di solito l’infatuazione, chiamiamola così, nasce dalla liturgia, dall’interesse per l’arte cultuale o dall’architettura e fa vittime proprio le persone che non ti aspetteresti. Cioè quelli che culturalmente e intellettualmente dovrebbero essere in teoria più preparati. L’attrazione deriva infatti proprio dall’osservazione del dato – magari reale, non lo si nega – che gli ortodossi avrebbero conservato in alcuni campi come quelli di cui sopra l’antico splendore che i cattolici hanno ormai perso. E gli argomenti di un certo peso a supporto della tesi, peraltro, non mancano: è stato un Papa (Benedetto XVI), non esattamente un passante, a sostenere che la crisi della fede nei Paesi di antica Cristianità è stato causato primariamente e in gran parte dal “crollo della liturgia” (testuale). Come sono stati fior di artisti e studiosi raffinati del bello a denunciare con vigore l’irruzione dell’indecente profano nella Casa di Dio trasformata in qualche caso, anche a livello visivo e spaziale, in vero e proprio supermercato (vogliamo parlare delle chiese con le porte girevoli, senza altari fissi o a vetrate-bunker degli ultimi anni?). E si potrebbe andare avanti. Ad Oriente, invece, così si dice, tutto questo non è mai avvenuto: le icone e i campanili hanno conservato la loro centralità di sempre nell’edificio sacro mentre il culto a Dio non ha mai perso quei lunghi momenti di silenzio adorante che legano la terra al Cielo. Tutto questo, va da sé, ignora comunque il piccolo dettaglio che le comunità ortodosse restano a tuttora scismatiche e se è indubbio che il cammino ecumenico con loro è quello dottrinalmente meno difficile perché hanno mantenuto più o meno intatta tutta la tradizione spirituale resta però altrettanto vero che i quasi 1000 anni (mica un giorno) staccati da Roma hanno finito col marcare a dismisura più le differenze che le somiglianze, più le distanze che le analogie.

Vi è poi un altro nodo che nel Novecento in particolare è emerso in tutta la sua drammaticità e resta molto problematico da sciogliere: il legame strettissimo, a volte in osmosi, con la storia identitaria nazionale e con le varie correnti del nazionalismo politico e filosofico specialmente. Se lo si conoscesse bene, già solo questo aspetto spegnerebbe di molto certe facili infatuazioni. Se noi cattolici proprio in quanto cattolici siamo portati all’universalità senza confini (“cattolico” d’altronde nell’etimo greco originario significa proprio “universale”) e, comunque, il fedele cattolico si considera prima in rapporto alla fede e poi in rapporto alla Patria, dall’altra parte del Danubio per secoli fino a oggi è accaduto il contrario: viene prima la Patria e poi Cristo al punto di mettere in dubbio – semmai – la fedeltà a Cristo se questa comportasse per qualche ragione il ripudio della bandiera nazionale. Così, se entrate in una chiesa ortodossa non vi stupirete di trovare abbinati più e più volte la bandiera e la croce mentre da noi un tentativo del genere verrebbe probabilmente vissuto come indebito e forzato, da ambo le parti. Le storie di quei popoli, naturalmente, oltre che antiche, sono molto complesse e non possono certo essere liquidate in due righe: vi sono ragioni storiche e geopolitiche profonde (un grande studioso disse un giorno che per capire l’Ortodossia bisogna prima capire bene la geografia), in alcuni casi addirittura plurisecolari, che spiegano perché un simile processo sia potuto accadere. E, viceversa, farebbe solo sorridere chi oggi per risolvere tutto affrontasse disinvoltamente il dialogo ortodosso con l’aria di chi dice: facciamo finta che gli ultimi mille anni non siano mai esistiti e cominciamo una pagina nuova. Il caso della ex Jugoslavia, per non andare troppo lontano, anche da questo punto di vista potrebbe insegnare molto. Noi a volte ci meravigliamo delle diatribe che sorgono tra fedeli se una Messa per qualsiasi motivo viene celebrata in latino anziché in italiano ma (mettendo da parte la ‘quisquilia’ che la lingua ufficiale della Chiesa resta il latino) di per sé non ci sarebbe nulla da meravigliarsi se guardassimo alla storia dei nostri cugini d’Oriente: da quelle parti la questione linguistica ha avuto sempre un legame evidentissimo e dirompente con i confini della comunità religiosa locale fino a segnare col tempo persino delle diffidenze reciproche tra i singoli Patriarcati. Insomma, per farla breve, le cose sono sempre un po’ più complicate di come appaiono superficialmente: una Messa ben celebrata resta sempre e ovunque una Messa ben celebrata, chiaramente, ma il Cristianesimo – dovrebbe essere una verità perenne da mandare a memoria – é in ogni caso infinitamente più grande del nostro cortile di casa. Dopotutto, la perdurante grandezza della Catholica come garante unica della Verità, come istituzione e come autorità, oltre che come comunità mondiale, è anzitutto qui.

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