100 anni fa, il 22 novembre 1916, moriva in circostanze mai chiarite del tutto il grande scrittore americano Jack London. Per l’occasione, il Teatro Miela gli ha dedicato tre giornate di omaggio — dal 22 al 24 novembre —, con letture tratte dalla sua sterminata produzione narrativa e saggistica, con rappresentazioni teatrali, proiezioni e racconti relativi alla sua esistenza avventurosa, aneddoti e testimonianze tratte da quanti lo conobbero e scrissero di lui.
Dopo lo strepitoso successo conquistato in vita, London, negli anni successivi alla sua morte, venne in parte dimenticato o relegato nel campo ristretto della letteratura per ragazzi. Una collocazione poco opportuna, se teniamo a mente la grandiosità di prospettive e la potenza fluente e trascinante della sua prosa. Mitica è la letteratura di London, mitica è la sua intera vita. Leggendo le biografie a lui dedicate, in particolare la stupenda rievocazione “London. L’avventura di uno scrittore” di Irving Stone che scolpisce un possente monumento in memoria dello scrittore, ci si imbatte in un personaggio dotato di capacità straordinarie già da bambino.
Non fu un’infanzia felice la sua, ma, come gli accadde lungo l’intero corso della sua vita tumultuosa e difficile, si sforzò con ogni mezzo di renderla ugualmente speciale ed entusiasmante. Cosa che non gli riuscì difficile, visto il suo temperamento impetuoso, nobile e passionale. Figlio illegittimo di uno studioso e praticante dell’astrologia, l’irlandese William Henry Chaney, e di Flora Wellmann, ragazza di buona famiglia fuggita giovanissima da casa e per questo rinnegata dai suoi, a 8 mesi Jack venne adottato da John London, che sposò la donna abbandonata da Chaney pochi mesi prima della nascita di Jack. John era vedovo e aveva raggiunto una certa prosperità come agricoltore: un uomo serio, pacato, molto affezionato al figlio adottivo verso il quale fu come un vero padre, sollecito ed attento, nonostante le continue burrasche famigliari provocate dal carattere lunatico e bizzarro di Flora.
La donna infatti nella vita famigliare fu sempre un spina nel fianco del marito e del figlio e con le sue idee fece sistematicamente fallire tutti i lavori ben avviati del consorte: non appena l’uomo era riuscito ad avviare una proficua e sicura attività grazie alla sua indole onesta, laboriosa e tenace, Flora, annoiata ed inquieta, esigeva scriteriati mutamenti di rotta e mandava tutto all’aria. In breve la famiglia London cadde in miseria e toccò al piccolo Jack portare a casa il pane. Lo scrittore infatti per tutta la vita, nonostante le sue sregolatezze e il suo spirito ribelle, manifestò un innato senso di responsabilità verso i propri cari e in generale verso il prossimo: ebbe sempre a cuore il bene altrui, in particolare quello dei suoi famigliari e, ancora bambino, iniziò a fare lavori durissimi e sfiancanti. Guadagnava poco e lavorava giorno e notte, ma il suo carattere solare e forte riusciva a rischiarare e a colorare anche la fatica e il sacrificio quotidiani. Oltre che sobbarcarsi dei lavori peggio pagati e umilianti, si appassionò molto presto alla lettura e le poche ore libere le trascorreva immerso nei libri che prendeva in prestito dalla biblioteca pubblica.
Anche quando iniziò a frequentare la scuola, continuò a lavorare. Piccole occupazioni, come ripulire giardini, spolverare e lavare tappeti e fare pulizie nelle case o nei locali pubblici. Del salario ricevuto non teneva nulla per sé: tutti i soldi li consegnava subito alla madre. Passarono gli anni e Jack diventò un ragazzo robusto, forte, con la testa straripante di idee, sogni e progetti. La sua passione per la letteratura divenne divorante, come il sogno o, meglio, la certezza, che sarebbe diventato un grande scrittore, baciato dalla gloria e risarcito dopo tanta povertà con un mare di soldi. Ma nel frattempo bisognava sopravvivere e provvedere alla famiglia. Divenne contrabbandiere, razziatore di ostriche, cacciatore di foche, marinaio, partecipò alla chimera del Grande Nord come cercatore d’oro nel Klondike, al confine tra il Canada e l’Alaska, riportando a casa solo qualche briciola di oro che gli valse ben poco. Lavorò come fuochista, come stiratore, come operaio in uno stabilimento di lavorazione della juta e in una fabbrica di conserve. Stremato e avvilito per l’inumana fatica da sopportare indefinitamente senza alcuna speranza di riscatto, decise di darsi al vagabondaggio e visse mesi per le strade, patendo la fame e il freddo, ma assaporando le fresche e giovani acque della libertà. Si abbandonò a spericolate prove di coraggio insieme ai suoi compagni di vagabondaggio, si saziò di bevute, risse e sregolatezze, finché, ancora una volta, le responsabilità famigliari lo richiamarono all’ordine. Ritornò a casa, si mise a studiare e, pur continuando a lavorare per mantenere i suoi cari, riuscì, studiando sedici ore al giorno, ad essere ammesso, dopo una serie di esami di ammissione, all’Università di Berkeley. Ma lo studio regolare fu solo una parantesi. Il sogno di Jack era di diventare scrittore e di vivere solo di letteratura.
Per lui non contava, né contò mai, diventare ricco. La sua aspirazione era quella di diventare un uomo nel senso più profondo e nobile del termine e, in quanto uomo — conoscitore autentico e diretto dell’umano —, anche scrittore. Dalle avventurose esperienze, che costellarono tutta la sua vita, London distillò l’essenza stessa dell’esistere: incontrò e conobbe a fondo migliaia di persone molto diverse tra loro, coltivò l’amicizia con una generosità e una lealtà assolute, osservò e studiò il dispiegarsi dei fenomeni naturali, sociali e storici, esplorò con le potenti sonde della sua intelligenza penetrante e della sua sterminata cultura i fondali della coscienza umana, trovandoli più oscuri e minacciosi degli abissi oceanici.
Aveva una concezione del sapere come processo in continua crescita, potenzialmente infinito, ragione per cui non smise mai di studiare, di raccogliere appunti, riflessioni, relazioni su argomenti di ogni genere, diari sugli eventi vissuti, sulle persone conosciute e i loro caratteri, costruendosi un immenso archivio personale e una biblioteca con migliaia di volumi che arricchiva ogni giorno di pubblicazioni su ogni argomento. Non era mai pago del proprio sapere, voleva sempre di più, in ogni cosa intrapresa, il meglio del meglio, per essere sino in fondo un uomo degno della vita ricevuta e delle sue infinite possibilità. Soprattutto nutriva l’ambizione di armarsi di un sapere universale che gli consentisse di capire e spiegare interamente la realtà e l’uomo. Economia, storia, politica, sociologia, arte, letteratura, filosofia, geografia, la scienza con tutte le sue branche (botanica, mineralogia, geologia, biologia, chimica, etc.), competenze tecniche e nozioni relative ad ogni mestiere: tutto veniva convogliato da London nel processo di personale formazione. Qualsiasi cosa intraprendesse, voleva conoscere bene l’argomento e le sue applicazioni concrete.
Iniziò la sua carriera letteraria scrivendo racconti per i giornali, quindi, ottenuta una certa fama e anche un certo benessere materiale, divenne giornalista — fu inviato come fotoreporter e corrispondente in Corea durante il conflitto russo-giapponese (1904) — e poi autore di romanzi che in breve conquistarono miriadi di lettori in tutto il mondo. Divenne famosissimo e anche ricchissimo, ma senza mai dare grande importanza né al successo né al denaro. Scriveva perché aveva dentro l’entusiasmo e la passione della scrittura, nulla di più. Quanto ai soldi fu un uomo ricchissimo e insieme poverissimo sino al giorno della sua morte. Infatti, nonostante le faraoniche somme guadagnate, era sempre a corto di denaro. Tutto quello che guadagnava lo dilapidava subito, per realizzare i propri sogni, ma anche per aiutare i propri amici e la propria famiglia. Per questo non si concesse mai un periodo di ozio, ma lavorò instancabilmente, scrivendo senza sosta: appena iniziava un nuovo racconto o un nuovo romanzo, aveva già speso i soldi che avrebbe guadagnato contraendo grossi debiti. Somme immense vennero spese a fondo perduto per il suo yacht, lo Snark che cadde a pezzi appena messo in mare nonostante l’ingente investimento di denaro, i pregiatissimi e scelti materiali e una nutrita equipe di personale specializzato (più a parole che nei fatti). London era un uomo generoso, si fidava di chi lavorava per lui e veniva sempre ripagato con ingratitudine e imbrogli; da buon americano credeva nella bontà naturale dell’uomo e questa fiducia forse troppo avventata gli costò non solo tanto denaro ma anche tanta energia, ideali e buoni propositi. Non mollò comunque la presa e si imbarcò ugualmente insieme alla seconda moglie per i Mari del Sud, sfidando ogni logica e buonsenso. Scrisse anche un libro su questo viaggio, narrando avventure al limite del possibile e del credibile.
Lo stesso disastro con cui si concluse l’epico varo dello Snark, suggellò l’altra sua grande e ultima impresa, la più amata e desiderata in assoluto: la costruzione di un magnifico ranch nella Valle della Luna in California, a Glenn Ellen, residenza di fasto e proporzioni imperiali, progettata da London nei minuti particolari e seguita in ogni fase della sua edificazione. La meta era ormai a portata di mano, tutti i lavori erano stati conclusi dopo anni di attesa. Le parti in ebano, lavorate da uno scalpellino italiano, erano state lucidate e in ogni stanza aleggiava un profumo penetrante di oli essenziali. Era il 20 agosto 1913. Il giorno dopo era previsto l’insediamento definitivo di tutta la famiglia London nella nuova casa. Ma durante la notte scoppiò un incendio che ridusse in cenere l’isola dei sogni di Jack. Questo fu un colpo troppo duro per lo scrittore il quale, nonostante l’intenzione di ricominciare da capo la costruzione del ranch, non si riprese più. Scoprì che tutti gli uomini che avevano lavorato per lui e che lui aveva trattato con il massimo riguardo e gentilezza, lo avevano ingannato, avevano falsificato le fatture, rubato ore di lavoro, gonfiato a dismisura i conti e comprato materiali scadenti al posto di quelli più pregiati e validi richiesti da London. Anche gli animali del suo allevamento, per quanto trattati con cura e amorevolezza, morirono l’uno dopo l’altro e le sue coltivazioni, realizzate secondo tecniche all’avanguardia che Jack studiava personalmente, marcirono e disseccarono al sole impietoso della grande valle. Una piaga di proporzioni bibliche, a cui si aggiunse la morte della figlioletta appena nata.
L’uomo ottimista dell’America che guarda al radioso futuro del popolo e che crede nella vita e nelle capacità titaniche dell’individuo, perse la sua fiducia e la sua voglia di vivere. Anche se non smise mai di scrivere, iniziò a bere smodatamente, si ammalò, divenne pesante e cupo, e la luce tagliente e splendida che aveva sempre brillato nei suoi grandi occhi buoni e intelligenti poco a poco si spense. Era il fallimento di una grande vita, di un grande uomo, di un grande scrittore e di un grande sogno.
Si è molto scritto e parlato del socialismo di London, dei suoi maestri quali Darwin, Spencer, Nietzsche e Marx i cui sistemi egli rielaborò molto personalmente: la vita è una tremenda e selvaggia lotta in cui vince e prevale solo il più forte, la natura è un crogiolo di energie scatenate che tutto travolge, l’uomo, il vero uomo, è un essere eccezionale che mette a frutto tutte le proprie facoltà e riesce sempre a prevalere sulla forza cieca del caso grazie ad una volontà adamantina e inflessibile. Ma se London ha testimoniato con i suoi scritti questa visione positiva della realtà intessuta di darwinismo sociale e di superomismo, se ha condotto una vita libera, avventurosa, appassionata e incendiaria, se ha elevato inni di inarrivabile potenza espressiva allo spettacolo stupefacente della natura nella sua possanza e bellezza, come spiegare quella disperazione sottile, pervasiva e silenziosa come la neve dei silenzi fatali del Grande Nord, che pervade ogni sua pagina, anche la più esaltata e radiosa? Come rendere ragione di un romanzo quale “Martin Eden” dove l’eroe protagonista, alter ego di London, dopo aver ottenuto dalla vita tutte le cose disperatamente desiderate, si uccide annegandosi nell’oceano? E la fine stessa dello scrittore, trovato agonizzante nel proprio letto la notte del 22 novembre 1916 con due fiale vuote sul tavolino, una di morfina e una di atropina? Un errore o una volontà ben chiara e ferma di porre fine ai propri giorni?
Grandi, insuperabili sono le pagine scritte da London, sia quelle dei romanzi più celebri, come “Il richiamo della foresta” (1903), “Il lupo dei mari” (1904), “Zanna Bianca” (1906), “Il tallone di ferro” (1908), “Martin Eden” (1909), “La valle della luna” (1913) e “Il vagabondo delle stelle” (1915), sia le migliaia e migliaia di pagine dell’immensa produzione novellistica. I temi ricorrenti sono i viaggi straordinari e al limite del possibile negli spazi selvaggi della terra e del mare, le imprese di uomini che la violenza della vita ha trasformato in irriducibili guerrieri, i trionfi eroici e insieme disperati di coloro che vincono la lotta per la sopravvivenza e prevalgono sulle avversità, ma anche le sconfitte, la miseria e l’abbrutimento delle tentacolari città percorse da perdenti e vagabondi, arenatisi negli angoli di una società in agonia che solo un balzo inumano della volontà e della fiducia in se stessi potrebbe risanare. A questo proposito ricordiamo il saggio “Il popolo degli abissi” (1903), reportage spietatamente realistico sulle condizioni di vita nell’East End di Londra, il ghetto delle vittime “industriali” dove Jack si infiltrò in incognito fingendosi un diseredato. Una fiera pietà e una virile tenerezza striano di generosa umanità le pagine che London dedica al popolo dei vinti.
In un mondo concepito come cieca materia trascinata dal nulla verso il nulla, in un perenne movimento senza scopo, solo la volontà dell’individuo — il grande privilegiato per un mero decreto del caso — può smuovere e orientare secondo i propri fini un’esistenza che non ha origine né approdo.
Le potenze che sospingono ciecamente la vita ribollono come un magma di lava infuocata che ora si rapprende in forme individuali — le cose tutte e tutti i viventi — e ora si scioglie di nuovo nell’innominabile informe. In quest’esistenza nuda e crudele quanto prepotente nelle sue dinamiche, London sembra aver vinto e perso al tempo stesso. Ha vinto come uomo ma non nel senso inteso dalla sua mente visionaria e titanica, ma nel senso più profondo e intenso dell’umano come sensibilità, gentilezza, pazienza, amorevolezza verso tutti, generosità, nobile sopportazione della sventura e capacità di perdonare chiunque lo avesse ferito e tradito. È il superuomo che ha perso, come lo stesso scrittore ci ha testimoniato descrivendo le immani pressioni subite dall’individuo ad opera della società, della natura stessa e perfino da parte di se stesso, quel se stesso sepolto e oscuro che è forse l’entità meno addomesticabile tra tutte, più insondabile e temibile degli amati oceani. Disperato è l’occhio che guarda la realtà così com’è, senza alcun “altrove” o “di più” che illumini le cose di qui.
Un’epica pessimista quella di London, ma stupenda e sfolgorante, grandiosamente ritmata in un dettato fluente, debordante e magnifico che ora si slancia ora si ritrae, mentre dal cuore dell’artista scende sulla pagina, lento come neve, uno di quei silenzi raggelanti e assoluti che si stendono solo sui ghiacci delle foreste, delle vette e dei fiumi del Nord. La gioia di essere ed esistere si confonde con il male di essere e di esistere, contraddizione che da sé non può spiegarsi né risolversi. Jack è stato una meteora in questa nostra notte di ombre e di fuochi, sfavillante come una torcia in una sera di festa ma rovinosa come una valanga che travolge e cancella ogni cosa. Le ceneri dello scrittore sono sepolte su una collina vicina alla sognata e perduta “isola” delle meraviglie, nella pace di una natura assolata e vivace, lontano dal fragore di quella lotta feroce per la vita che ogni giorno Jack affrontò con nobile coraggio e con l’eroica umiltà di chi infondo ben sa che l’uomo non può bastare a se stesso.
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