Young-ae Kim aveva 25 anni quando è scappata dalla Corea del Nord, nel 1998. Sotto il regime stalinista dei Kim faceva il poliziotto, ma dopo la morte del padre, un uomo ben inserito nei gangli del potere comunista, e la grave malattia che ha colpito la madre, direttrice di ospedale, anche lei ha lasciato il suo posto per darsi al contrabbando. Era l’unico modo per far sopravvivere la famiglia. Quando il regime l’ha arrestata, solo le ottime e vaste relazioni della madre con le persone che contano le hanno permesso di essere rilasciata. Non potendo più vivere nel paese, come tanti altri è scappata attraversando il fiume Tumen, confine naturale tra Pyongyang e Pechino, ed è approdata in Cina. È qui che, per la prima volta, ha sentito un discorso strano, una parola nuova, un concetto rivoluzionario: «Lo sai che esiste un essere chiamato Dio?». Young-ae non ne aveva mai sentito parlare: «Non sapevo che esistesse qualcosa chiamata Dio».
In Corea del Nord, sebbene la Costituzione garantisca a tutti i cittadini il rispetto della libertà religiosa, non c’è spazio per un culto diverso da quello di Kim Il-sung, padre della patria, “Eterno presidente” e nonno dell’attuale dittatore Kim Jong-un. «Mio padre – racconta a Tempi – era un segretario del partito comunista e mia madre direttrice di un ospedale statale. Sono cresciuta in una famiglia comunista fervente fino al midollo. Non ho mai avuto neanche l’occasione di sapere dell’esistenza di altre religioni o pensieri al di fuori del comunismo». Del resto, «nella società nordcoreana, fin dai primi anni noi siamo stati educati e indottrinati con il culto della famiglia Kim. Ecco perché non c’è posto per Dio». Così, quando in Cina ha sentito parlare di un certo Gesù, figlio di Dio, morto in croce per la salvezza di tutti gli uomini, «ho pensato che non mi riguardasse». Quando ha finalmente completato la sua fuga, arrivando in Corea del Sud, l’incontro con padre Raymond Lee le ha fatto cambiare idea. Oggi Young-ae Kim ha 43 anni e il 18 giugno si è fatta battezzare cattolica con il nome di Maria.
Quello stesso sabato, in un’affollata chiesa moderna in Banpo 4-dong, nella capitale Seul, altri 59 nordcoreani scappati dal regime come lei si sono fatti battezzare da padre Lee e si sono uniti alla Chiesa cattolica. In tre hanno accettato di raccontare la loro storia a Tempi, a condizione di omettere molti dettagli che potrebbero mettere a repentaglio la loro incolumità. Il battesimo di sessanta persone è un evento raro a Seul, a maggior ragione se sono nordcoreani e se tra di loro, come affermato da padre Lee durante l’omelia, «ci sono persone che sono state chiuse in carcere; qualcuno è anche stato costretto a guardare i genitori mentre venivano giustiziati. Avete passato difficoltà di ogni tipo e avete un grande bisogno di amore. Io vi auguro il meglio ora che siete rinati nell’amore di Dio. Prego per la vostra felicità». Ma come si può far conoscere Dio a persone che non ne hanno neanche mai sentito parlare, educate per tutta la vita all’oblio e alla fede cieca in una divinità terrena? Padre Lee, che fin dall’ottobre scorso ha insegnato catechismo ai sessanta nordcoreani una volta a settimana, ha usato anche il linguaggio politico e militare a loro così tristemente consono: «Se venite battezzati, voi apparterrete al partito cattolico e non più al partito comunista!».
«Una comunità che vive insieme»
Keum-ho Yoo, 43 anni, battezzato Pietro, comprende bene questo linguaggio. In Corea del Nord era un soldato e come gli altri «non credevo in Dio perché non avevo la minima idea che esistesse un Dio». In famiglia e a scuola ha ricevuto una rigida educazione atea e nel suo paese, dal quale è scappato nel 1998 a 25 anni perché «stufo del regime», non ha mai incontrato un cristiano. Solo una cosa sapeva riguardo alla religione: «Chi crede in una religione può essere fucilato».
Anche lui ha sentito parlare di Gesù per la prima volta in Cina da un pastore protestante sudcoreano. Questo strano Dio però non ha mai riscontrato il suo interesse fino a quando non l’ha aiutato: «Sono scappato tre volte dalla Corea del Nord. Le prime due volte ho fallito, sono stato scoperto in Cina e rimpatriato», dice a Tempi. «Ero davvero scoraggiato, così la terza volta ho pensato di pregare. Non l’avevo mai fatto prima e incredibilmente il mio tentativo di fuga è riuscito. È merito di Dio se sono riuscito a scappare, questo è il motivo per cui mi sono convertito al cattolicesimo».
La strada non è stata certo semplice. «A causa della mia educazione e tradizione, molti concetti mi risultavano ostici. È stato difficile», continua. Ma più ascoltava il catechismo, più si convinceva che questa era la strada che faceva per lui. «È stato un amico a invitarmi la prima volta in chiesa. La cosa che più mi ha impressionato dei cattolici è che sono una comunità che vive insieme. Questo per me è davvero bello. Tutta la mia conversione è stata un cammino di amore che mi ha portato a Dio e oggi la fede mi permette di vivere in pace con me stesso e di avere una speranza nella vita. Spero che anche il popolo nordcoreano possa un giorno vivere libero e in pace».
Per ora non si riscontrano segnali positivi in questo senso. Il dittatore Kim Jong-un continua a portare avanti una retorica guerriera, accompagnata da test nucleari e lanci di missili. E la “battaglia dei 200 giorni” varata a giugno dal regime per migliorare le prestazioni economiche del paese, rischia di tradursi in mesi di mobilitazione massacrante per i cittadini, sia dal punto di vista del lavoro fisico sia da quello dell’impegno ideologico, con sessioni di critica e autocritica fissate ogni giorno anche alle cinque del mattino.
Il cattolicesimo? Una droga
Un piccolo passo avanti è stato invece fatto per quanto riguarda le relazioni con la Chiesa cattolica. Dall’1 al 4 dicembre 2015, cinque vescovi e numerosi sacerdoti si sono recati a Pyongyang per parlare con le autorità del paese. Anche se in Corea del Nord non ci sono più preti, Open Doors sostiene che i cristiani siano almeno 400 mila, in aumento, e per Aiuto alla Chiesa che soffre i cattolici potrebbero raggiungere quota 10 mila su 24 milioni di abitanti.
Padre Agostino Lee, direttore del Dipartimento per le comunicazioni della Conferenza episcopale coreana, preferisce essere più cauto e, pur premettendo che «non conosco il numero esatto dei cattolici», cita stime che parlano di «800 fedeli» per lo più «battezzati dai laici». La delegazione doveva discutere della condizione dell’unica chiesa cattolica rimasta nel paese: quella di Jangchung, costruita nel 1988 e ora seriamente danneggiata. Molti la considerano una finta chiesa per illudere i turisti che esista la libertà religiosa, ma è consacrata. Nessuno vi dice Messa, anche se un laico guida la Liturgia della parola. Un’inchiesta dell’Onu sulle violazioni dei diritti umani nel paese ha confermato che «chi pratica la religione viene perseguitato come un criminale» e il cristianesimo «è paragonato alla droga, ai narcotici, al peccato e all’invasione capitalista». Secondo molti esperti, nei campi di sterminio ancora oggi aperti, tra le circa 200 mila persone potrebbero esserci fino a seimila cristiani.
La forza di perdonare
È da questo mondo che nel gennaio del 2014 è scappata Sehyon Ahn, 26 anni, battezzata Angela. Studentessa, ha attraversato il fiume Tumen «con la speranza di studiare musica liberamente», spiega a Tempi. Al contrario degli altri, «pur non conoscendo Dio, ho sempre creduto nella sua esistenza e ogni tanto l’ho anche pregato». Dai film e dai libri ha sentito parlare per la prima volta di Gesù e poi un amico, conosciuto in Corea del Sud a Hanawon, centro di sostegno per i rifugiati nordcoreani, «mi ha portato in una chiesa cattolica, dove ho deciso di convertirmi». La cosa più difficile per lei era «credere in un Dio invisibile» e solo grazie «all’incontro con padre Lee ho deciso di abbracciare la fede». Fondamentale per Angela è stata «la risposta di Dio alle mie preghiere più sincere e posso dire che la mia conversione è stata un cammino di gioia, perché ora sono davvero felice e mi sento in pace. Incredibilmente, mi sembra che tutto stia andando bene».
Angela, come Pietro, «è stata arrabbiata con Dio e ho chiesto il perché» di tante sofferenze causate da una vita vissuta sotto il pugno di ferro di un regime. E la vita in Corea del Sud, tra i paesi più individualisti e tecnologicamente progrediti del mondo, spesso non aiuta perché «io apprezzo che qui chiunque possa guadagnarsi da vivere e condurre un’esistenza migliore, ma non mi piace l’eccessivo individualismo ed egoismo». In un luogo così radicalmente diverso dalla Corea del Nord, Maria ha trovato la sua casa: «La conversione è stata come un cammino in cerca di casa mia. Don Lee mi è stato vicino come un padre e mi ha promesso che la Chiesa sarebbe stata la mia nuova casa». Così è stato e l’ex poliziotta del regime ora «è impressionata dalla comunità di amore che è la Chiesa. Non avevo mai avuto il desiderio di servire gli altri, ora sì e questo è il più grande cambiamento che ha prodotto in me la fede».
Maria Kim, Angela Ahn, Pietro Yoo, insieme agli altri 57 battezzati, «sono ora discepoli di Cristo e giocheranno un ruolo fondamentale nella diffusione missionaria del vangelo in Corea del Nord», dice di loro padre Lee. Nessuno è in grado di predire quando questo potrà avvenire. Quando «la Corea del Nord aprirà le porte e la riunificazione della Corea diventerà realtà», ammette Angela. «Io spero avvenga presto». Ma quel giorno non ci sarà il rischio che la rabbia per una giovinezza rovinata dai crimini di un regime disumano prevalga sulla gioia? «No», risponde la studentessa. «Perché attraverso la preghiera ho trovato la forza di perdonare».
di Leone Grotti
Fonte: http://www.tempi.it
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