Si dichiara non solo la morte del senso, ma anche quella della stessa ragione per cui tutto, in sostanza, non può che ridursi ad un immobilistico e coerente silenzio, anche e soprattutto del pensiero.

Morte del senso e senso della morte




«Perché esistono la morte e la sofferenza? Perché gli uomini devono soffrire e morire?»: si chiedeva Louis Althusser a metà degli anni ’70 del XX secolo.
La domanda dell’epoca è la domanda di oggi in quanto è la domanda di sempre.
Tuttavia, se identica è la domanda non identica è la risposta che ad essa si è data nel corso del tempo e specialmente oggi.
Differentemente da altre epoche storiche, infatti, l’odierna etica dominante ritiene che le cose, il mondo, la vita nella sua interezza, e quindi perfino la morte che è parte della vita, siano senza alcun senso.
Questa convinzione nasce dal fatto che non esiste e non può esistere una verità di fondo alla base della vita, specialmente perché i valori mutano con il tempo e con esse l’idea del vero e del falso, come del bello e del brutto e soprattutto del bene e del male varia da persona a persona, anche perché ciascuno li ricava da se stesso e per se stesso.
Non si può dunque parlare di senso, ma semmai di sensi, cioè tutti quelli individuali che si ricavano soggettivisticamente. Si comprende che se tutti sono sensi particolari e ugualmente validi, nessuno è universale e quindi il senso semplicemente non esiste, come, del resto, lo stesso Althusser candidamente ha ammesso invitando a riconoscere che questa mancanza di senso costituisce, addirittura, l’effettiva garanzia della libera azione umana: «La condizione più sicura per poter agire nel mondo è ammettere che il mondo non ha un senso».
La parte maggioritaria e più influente dell’attuale etica laica – cioè, per intendersi, quella che si appella esclusivamente alla ragione negando ogni fondabilità morale dell’esistenza su una dimensione trascendente in genere e rivelata in particolare – muove da una tale premessa che, paradossalmente, proprio la ragione sacrifica, in quanto ritiene che essa sia non sufficiente per investigare la realtà.
Così facendo si dichiara non solo la morte del senso, ma anche quella della stessa ragione per cui tutto, in sostanza, non può che ridursi ad un immobilistico e coerente silenzio, anche e soprattutto del pensiero.
In tale prospettiva la vita intera non ha più alcun senso, e così anche la morte che diventa un evento inspiegato ed inspiegabile, almeno oltre la sua mera determinazione fisico-biologica.
La morte in senso umano, razionale ed esistenziale diventa qualcosa di inaccessibile, incomprensibile, ingiustificabile: la morte del senso porta così con sé la morte del senso della morte.
Se così fosse ci si dovrebbe necessariamente fermare qui.
Tuttavia, così non è, poiché, come ha precisato Jean-François Lyotard «c’è bisogno di filosofare perché abbiamo perso l’unità. L’origine della filosofia è la perdita dell’uno, è la morte del senso».
Quanto più è forte l’istanza che afferma la morte del senso, dunque, quanto più forte dev’essere la contro-istanza che afferma le energie del pensiero.
In questa seconda prospettiva tutto possiede un senso intelligibile tramite l’umana ragione.
La morte possiede quindi un senso che si palesa, data la complessità della natura della morte stessa, secondo diverse declinazioni o manifestazioni.
In un primo momento, il senso della morte è quello della sua datità materiale, cioè della forza della natura che pone un limite ai desideri, alle aspirazioni, alle ambizioni dell’essere umano, sancendone il confine almeno di carattere fisico e temporale.
In un secondo momento, il senso della morte viene a porsi come strumento di consapevolezza della fragilità esistenziale – non più secondo la determinazione fisico-biologica, ma secondo quella più profonda di carattere ontologico – dell’essere umano che è un essere destinato a venir meno poiché la sua vita ha una precisa origine e non può che avere una precisa fine.
In un terzo momento, ricollegandosi al punto precedente, il senso della morte viene in risalto come indice della natura relazionale dell’essere umano che come non nasce da solo, così da solo non può morire, in quanto la morte propria è tale solo quando è vissuta dall’altro, dal prossimo.
In un quarto momento, il senso della morte si propone come rivelarsi del senso della vita in almeno due direzioni: all’indietro, in quanto la morte non è l’opposto della vita, ma è parte della stessa; in avanti, in quanto la morte non è la fine della vita, ma il nodo di giuntura dei lobi della clessidra dell’intra-temporale e dell’ultra-temporale, cioè tra la vita dell’al di qua e la vita dell’al di là.
In un quinto e ultimo momento, il senso della morte esprime la dignità dell’essere umano il quale non è immortale come gli dei, né meramente contingente come il resto del creato, per cui la sua fine, la sua morte, non è di certo la fine del senso, ma non è nemmeno la fine dell’irrilevante.
La mancanza di comprensione del senso della morte che tanto caratterizza l’epoca attuale, allora, è, verosimilmente, l’altra faccia della medaglia della mancanza di comprensione del senso della vita, anzi, il doppio atteggiamento di negazione del senso della morte da un lato e del suo impossessamento dall’altro (per esempio tramite la rivendicazione del diritto di morire) rappresenta la prosecuzione con altri mezzi di quell’atteggiamento che negando il senso della vita se ne impossessa (per esempio tramite la selezione eugenetica degli embrioni), come ormai, tragicamente, da anni dimostra oltre ogni dubbio l’esperienza globale e globalizzata della biopolitica.
di Aldo Vitale
Fonte: http://www.tempi.it

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