Beatificazione, sabato 17 maggio, di Monsignor Anton Durkovici. Fu lasciato morire di fame nella cella 13 del carcere comunista di Sighet, in Romania.

Morì assistito dai topi della prigione




Non si fermano più le beatificazioni dei numerosi martiri del comunismo rumeno degli anni Cinquanta. Dopo monsignor Vladimir Ghika, di cui parlammo su Vita Nuova l’ano scorso, ora è la volta di monsignor Anton Durcovici (1888-1951), vescovo dei cattolici latini di Iaşi, che trovò la morte per fame e sete tra i topi del terribile carcere comunista di Sighet il 10 dicembre 1951.

La sua vita

Nato nell’attuale Austria (allora asburgica), a Bad-Deutsch Altenburg, Durcovici proveniva da una famiglia povera e perse il padre, per una turbercolosi, ad appena cinque anni. Allora fu la madre, che era casalinga, a dover mandare avanti la famiglia, lavorando prima come lavandaia e poi come sarta. Grazie all’interessamento di una zia la famiglia si spostò quindi in Moldavia, a Iaşi. La sua futura vocazione sacerdotale si manifestò qui, quando – poco più che bambino – si presentava per fare da chierichetto alla Messa, non solo la domenica ma anche durante la settimana. Bella o brutta stagione che fosse. E, tanto per dare un’idea, ricordiamo che in quel periodo le temperature invernali toccavano anche i -20° e i -30° gradi.

Fu quindi inviato presso il seminario minore di Bucarest, allora retto da Raimond Netzhammer, futuro arcivescovo della diocesi. Quest’ultimo, colpito dalla precoce vocazione del ragazzo e dalla sua vivacità intellettuale, lo mandò a studiare a Roma, dove Durcovici perfezionò prima gli studi filosofici (all’Angelicum) e quindi quelli teologici, all’Urbaniana, conseguendo il dottorato nel 1910, stesso anno in cui fu ordinato sacerdote. Nel 1911 tornò finalmente in Patria, non prima però di essersi fermato a Loreto in pellegrinaggio a ringraziare e poi nella nativa Austria per salutare i suoi parenti e celebrare Messa.

Arrivato in terra rumena, a conferma delle sue doti intellettuali, diventa in breve docente presso il seminario “Santo Spirito” di Bucarest ma allo scoppio della prima guerra mondiale e del successivo conflitto austro-rumeno, viene arrestato in quanto cittadino di una potenza nemica sul territorio e può essere liberato solo per intervento diretto dell’arcivescovo presso il re Ferdinando. Poco più tardi, è rettore del seminario di Bucarest, che guida ininterrottamente per oltre vent’anni, dal 1924 al 1947.

Intanto ha ricevuto la cittadinanza rumena, nuovi incarichi di insegnamento e i suoi impegni pastorali aumentano visibilmente: nel 1935 viene nominato anche Vicario generale dell’arcidiocesi di Bucarest. Tuttavia, la svolta decisiva della sua vita avviene dieci anni più tardi quando Papa Pio XII lo nomina Vescovo di Iaşi: dopo non pochi problemi frapposti dal governo rumeno (nel frattempo caduto in mano ai comunisti di Constantin Parhon) alla decisione della Santa Sede, viene consacrato nella cattedrale di San Giuseppe a Bucarest il 5 aprile 1948. Ma la Securitate, visto anche il grande seguito popolare che riscuoteva (si disse che mai a Iaşi si erano visti tanti cattolici), mise fin da subito gli occhi su di lui e seguì passo passo ogni suo movimento. Il 26 giugno 1949 mentre si reca ad amministrare la cresima a Popeşti-Leordeni, proprio una macchina della Securitate con a bordo tre uomini lo rapisce e lo porta via, prima a Bucarest, poi a Sighet.

Il racconto delle ultime ore

Viene sottoposto ad estenuanti interrogatori ed accusato di essere una spia del Vaticano, poi degli Stati Uniti. Quindi seguono le sevizie e le torture, indicibili. Nello stesso carcere era rinchiuso anche un altro vescovo, Ioan Ploscaru, ausiliare di Lugoj, di cui pure già parlammo tempo fa, per la sua testimonianza eroica (http://www.vitanuovatrieste.it/lettere-dallinferno-lucifero-in-romania/). E’ lui che ci ha lasciato un racconto delle ultime ore di Durcovici, che non ha bisogno di molti commenti: «La direzione della prigione lo aveva messo in isolamento quando si era resa conto che stava per morire. Fu proprio lasciato morire di fame, da solo, perché non se ne avesse notizia. Se il vescovo Durcovici fosse stato in cella insieme agli altri, forse avrebbero potuto aiutarlo, dandogli sollievo negli ultimi momenti di vita. L’11 dicembre 1951 sentii padre Ioan Deliman, che scaricava carbone in cortile, mentre diceva ad alta voce in francese: monseigneur Durcovici est décédé. Dopo che fu portato via, di notte con la carretta che serviva per le immondizie, il giorno seguente bruciarono la paglia del materasso, come si soleva fare; poi misero il suo vestito a righe ad asciugare sul mucchio di legna che c’era nel cortile. Due giorni dopo un poliziotto mi condusse nella cella 13, perché facessi un po’ di pulizia. Era la cella dove era morto il vescovo Anton Durcovici. La prima impressione fu dolorosa. Con uno solo sguardo compresi la solitudine e la miseria in cui era morto. Per tanto tempo – conclude Ploscaru – ringraziai nelle mie preghiere mons. Durcovici, perché dopo la sua morte le sue coperte mi avevano riscaldato e un vetro della sua cella preso grazie alla bontà del poliziotto, dal quale potevo godere la luce naturale, aveva trasformato l’ambiente funereo della cella. Mons. Anton Durcovici morì come un martire, assistito solo dai topi della prigione». 

Domenica prossima verrà ufficialmente dichiarato Beato e con lui la Chiesa rumena avrà un altro sicuro protettore in Cielo. Ora, le beatificazioni sono sempre una festa e ci ricordano concretamente la meta gloriosa che ci aspetta ma sarebbe anche bene, in occasioni come queste, meditare un po’ su quella che è stata la vita della Chiesa a Est non venti secoli fa, ma appena qualche decennio fa. Giusto per non dimenticarla e ricordare che – come dicevano i nostri vecchi – se siamo liberi è anche grazie al fatto che per fede qualcuno, da qualche parte, in qualche tempo, vicino o lontano, ha offerto la sua vita. Perché nelle grandi vicende dei popoli come in quelle piccole dei singoli la fede vera è sempre una conquista esigente da conservare, mai qualcosa di gratuito dato una volta per sempre.

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