Mia Martini




Respirando l’immenso come una rondine pigra volando, io le terre lontane ho cercato dove il sole è più caldo e l’universo è più blu

Nella canzone “Dove il cielo va a finire” del 1973, da cui è tratto il brano in corsivo di apertura, si può intravedere uno dei leitmotiv che hanno caratterizzato lo stile interpretativo di Mia Martini (1947-1995), ovvero il desiderio di un orizzonte più vasto in cui poter essere davvero più libera. La grande cantante di origini calabresi, la cui vocalità ampia ed intensa si ispirava all’amata Aretha Franklin, aveva già espresso questo ardente anelito nel suo primo album del 1972, emblematico fin dal titolo: “Oltre la collina”.

In un modo davvero struggente Mia Martini aveva cercato di dimenticare cosa aveva perso dietro la collina: «(…) La mia fede la persi e poi la ritrovai e poi la persi ancora. La mia speranza diventò ben presto un’abitudine, i miei sogni furono le mie ossessioni (…) ora tutto questo è là dietro la collina, pronto a risucchiarmi indietro, a trascinarmi con sé nel buio, nel silenzio, nel marmo (…) io fuggo per cercare disperatamente un amore». Delle tre virtù teologali (fede, speranza, carità) citate nel brano, Mia Martini cercava soprattutto un amore, un amore vero, che tenesse conto della sua anima in ricerca, come descritto nel pezzo “Questo amore vero” del 1972.

In una splendida canzone, “Gesù è mio fratello” del 1971, composta da un giovanissimo Claudio Baglioni, Mia cantava in modo impareggiabile uno dei brani più belli (e tuttavia non molto conosciuto) dell’intero panorama canoro italiano: «Gesù ci dissero un giorno che eri morto, morto per sempre insieme a Dio, Tuo Padre (…) così fu il vuoto intorno a noi e dentro noi (…) soli restammo chiusi tra la noia e la paura, aggrappati a paradisi artificiali (…) e così ti abbiamo perduto, ti abbiamo aspettato, ti abbiamo cercato, e abbiamo trovato Te nell’occhio delle stelle, nel sapore del mattino, nel sorriso di chi ama (…) e fu come riavere la vista dopo mille anni, fu come scoprire là nella boscaglia folta il sentiero perduto (…)».

La sofferenza di una voce straziante, la richiesta di perdono per le colpe commesse si potevano scorgere in canzoni molto belle, come ad esempio “Io straniera” del 1972: «Pregherò con la mia voce che si infrangerà. La mia anima sarà io straniera, piano soffrirò. Amico, tu pescatore, gli orizzonti miei si oscurano, non vedo più. Dammi fede, la mia rete è vuota. È l’ora, dimmi tu cosa pescherò (…) io straniera pace troverò» e nell’appassionato “Madre”: «Madre perdono, io sono andata via (…). Madre perdono, fammi tornare. Padre perdono, voglio tornare».

In quegli anni di contestazione giovanile e di critica feroce verso le autorità, in primis la famiglia, Mia Martini cantava tutta la sua fragilità, tutto il suo desiderio di amore, come nella delicata “Donna sola”.

In questa grande artista anche oltralpe avevano creduto, tanto da paragonarla in Francia al mito di Edith Piaf. Charles Aznavour la volle con sé addirittura all’Olympia de Paris e molti altri autori composero per lei canzoni, come Bruno Lauzi e il suo “Piccolo uomo” da lei magistralmente interpretato: «Piccolo uomo non mandarmi via, io piccola donna morirei (…) di me che sono tanto fragile e senza te mi perderò». Una cantante che nella sua mai celata delicatezza e sensibilità era consapevole della fragilità dell’amore terreno e del ruolo autentico e nobile della donna, della sua raffinata psicologia, come nel Ritratto di donna del 1977.

Cantando si impara con Mia Martini, parafrasando un’altra sua memorabile canzone, a cantare le stelle ed a scorgere un punto fisso, che vada oltre le mode fugaci e passeggere del falso successo, come nella celeberrima e splendida “Almeno tu nell’universo” presentata al festival di Sanremo del 1989: «Tu che sei diverso, almeno tu nell’universo. Un punto, sai, che non ruota mai intorno a me».

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