Martina Vocci commenta Cristicchi




di Martina Vocci

«Il silenzio è come una bomba» canta Cristicchi in uno dei brani dello spettacolo Magazzino 18, quello che in questi giorni ha scatenato tutto tranne quello. Tra polemiche, talvolta sterili e soprattutto inutili, è andata in scena sul palco del Teatro Rossetti la pièce teatrale dedicata a una memoria spesso dimenticata dalla maggior parte dell’Italia, fatto su cui ironizza anche lo sguardo straniante dell’archivista ministeriale Simone Cristicchi-Persichetti che, giunto a Trieste per mettere ordine nella masserizia ammassata nel Magazzino 18 del Porto Vecchio, si trova a fare i conti con i fantasmi che hanno posseduto quegli oggetti. Da principio il confronto è comico e pieno di luoghi comuni come solo un romano può sciorinare: l’economica vacanza all inclusive a Novigrad, l’esòdo biblico composto dal famoso scrittore Giuliano-Dalmato. E poi inizia la ricostruzione, precisa e puntuale delle tappe di una Grande Storia, spesso dimenticata o, ancora peggio, strumentalizzata: Arbe, le “Buche” a cui è dedicata la canzone più toccante dello spettacolo, la motonave Toscana, le mine di Vergarola,  il Controesodo, i campi profughi e ancora Goli Otok. Tutto attraverso le storie di giovani che hanno vissuto sulla loro pelle quegli avvenimenti e che Simone Cristicchi racconta attraverso il suo alter ego lo spirito delle masserizie e con l’aiuto dei bambini che affollano il palco e accompagnano la voce del narratore che dedica al racconto la prosa, mentre esprime i sentimenti con il lirismo prezioso e delicato della musica.

Ho radici istriane, e spesso mi sono trovata a spiegare all’archivista Persichetti di turno la storia dei miei genitori ma, nonostante il mio enorme affetto e la conoscenza delle dinamiche pericolose che possono scatenare le polemiche dei giorni scorsi, credo di esserci sempre riuscita solo in parte perché mi sono sempre scontrata con i luoghi comuni che su questo tema si sprecano: ma allora i tuoi, se sono andati via, erano italofascisti,e gli “altri” erano  tutti slavo comunisti. Ciò che ha sempre avuto grande impatto sono state le storie vere, quelle della mia famiglia, come mio zio Giovannin che pur abitando sempre in Caldania, sull’attuale confine tra Slovenia e Croazia, è nato austroungarico, è diventato italiano, poi jugoslavo e poi ancora croato: tutto senza mai muoversi da casa sua. Sono le storie quelle che raccontano meglio la Grande Storia, quelle delle persone comuni, come diceva Lukacs il tipico che diventa universale. E così accade anche nel Musical-Civile Magazzino 18: la poesia della quotidianità racconta in modo immediato e semplice anche i nodi più complessi. E alla fine  dello spettacolo la sala gremita di pubblico ha lungamente applaudito Simone Cristicchi, anche coloro che erano venuti a teatro solo per avere un buon motivo per discutere con le amiche nei giorni successivi su come il “foresto” venuto dalla capitale si fosse permesso di aprir bocca in merito e di come non ne avesse davvero imbroccata una. Anche a questi spettatori sono bastate poche battute per ricredersi e realizzare quanto poca politica sia contenuta nella piece.  Non c’è traccia di politica in Magazzino 18, anzi c’è un universo di grande politica nel senso più nobile e antico del termine. Non c’è nemmeno un attimo in cui, cullati dalla musica e stregato dalla scenografia semplice e di grande effetto, si pensa alla politica durante l’ora e mezza in cui si trova seduto sulla sua sedia. Perché le storie raccontate da Cristicchi, insieme all’altro autore dei testi Jan Bernas e alla regia di Antonio Calenda, sono prive di qualsiasi paternalismo e ideologia, ci sono le ragioni dei vinti, quelle dei vincitori e come dice Persichetti alla fine, purtroppo, “la guera è guera” e non risparmia niente e nessuno. Simone Cristicchi racconta semplicemente le storie di chi possedeva quelle sedie attentamente catalogate nel Magazzino 18, con la sola volontà di rompere il silenzio che per quasi sessant’anni c’è stato intorno a questi fatti. Il più grande smacco o a queste memorie, per giuste o sbagliate che siano, è proprio il silenzio, l’oltraggioso silenzio come lo definiva Caludio Magris, perché è come una bomba. Solo attraverso la conoscenza si può portare il dovuto rispetto all’unico elemento che ha caratterizzato tutti senza dietrologie, paternalismi o moralismi: un dolore sconosciuto perché spesso ciascuno di noi conosce solo il proprio e in Italia spesso non si conosce per niente. Quel dolore che non ha mai più fatto tornare mio nonno nella sua casa natale di Caldania, quello di Anna che per anni ha dichiarato di essere nata a Firenze perché era complicato dire che veniva da Pola, quello di Giovanni che fino all’ultimo respiro  non ha più potuto parlare lo sloveno perché se lo sentivano in campo profughi erano guai per tutta la famiglia. Per abbattere i muri bisogna prima capire quali essi siano e soprattutto bisogna ricordare, parlare e raccontare per andare avanti insieme al canto dei bambini e guardare al futuro, rispettando il passato e sotterrando l’ascia di guerra.

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