“Maravee Ludo”: il gioco infinito




La vita come gioco, il gioco come vita. Quante metafore si possono costruire con l’immagine del gioco? Le sue regole e i suoi schemi, commisti con il libero sbrigliarsi della fantasia e dell’intelligenza, sono una sorta di grammatica e di sintassi originaria e primordiale di tutto l’esistente, visibile e invisibile.

Il festival culturale che si tiene annualmente al Castello di Susans di Majano (Ud) quest’anno si intitola “Maravee Ludo” ed è stato interamente dedicato al gioco nelle sue sfaccettate declinazioni sul versante filosofico, letterario, esistenziale, sociale, psicologico e di costume. La kermesse si è svolta tra il 29 ottobre e il 6 novembre. La scelta di un tema di questa rilevanza e ampiezza di significato apre la strada a una serie di riflessioni incardinate su due aspetti relativi alla dimensione ludica quali il disimpegno del gioco da una parte e la serietà delle sue applicazioni ad aree della vita e del pensiero umani dall’altra.

Non sono solo i bambini a giocare. Seppure anche in questo caso il piccolo teatro allestito dai più piccoli non sia così scontato come comunemente si crede, tutti gli uomini ogni giorno hanno la possibilità di assaporarne la logica.

Come il gioco, anche l’esistenza ha le sue regole, le sue sfide, le sue competizioni, le sue maschere e i suoi margini di libertà creativa. Spesso, nell’adulto, questa componente creativa viene soffocata dalla pesantezza delle responsabilità e degli obblighi, assenti invece nel gioco infantile. Questo non esclude la possibilità di ciascuno di cogliere e di esprimere l’aspetto più leggero e divagante del gioco nei momenti di svago e di riposo. Quando si passeggia immersi nella natura, oppure si intesse una bella conversazione con gli amici o con le persone più care, quando ci si dedica ai propri passatempi preferiti in totale libertà da ogni coercizione, allora il gioco regala i suoi doni migliori.

Cosa ci insegna su questo sfondo la presenza dello schema del gioco nell’esistenza concreta dell’adulto? Che l’aspetto ludico è una corrente vivificante che scorre nell’alveo del nostro tempo libero, passibile di espandersi anche al tempo feriale qualora si decida di aprirsi con maggiore consapevolezza all’eterna sorpresa dei piccoli eventi quotidiani.

La natura stessa, nel suo libero confluire di forze e di relazioni viventi, si dispiega sotto gli occhi dell’uomo come un gioco governato da regole fisse e immutabili da cui scaturiscono spesso poesia e bellezza. Essendo il gioco un intreccio di regole e di fantasia, di progetto concordato e insieme di paradossi senza limiti — pensiamo alla logica senza logica di quel grande gioco narrato in “Alice nel paese delle meraviglie” di Lewis Carroll (1832-1898) —, esso ben si presta a incarnare la convergenza tra leggi prestabilite e sconvolgimento delle stesse implicita nella natura. Questa compresenza di necessità di uno schema prestabilito e di libertà inventiva anima anche l’arte che è gioco delle facoltà intellettuali, spirituali e immaginifiche come voleva il grande drammaturgo e scrittore romantico tedesco Friedrich Schiller (1759-1805). Se io non rispetto delle regole di base garanti di comunicabilità e lascio spazio solo ai voli della fantasia, la leggibilità dell’opera d’arte andrà perduta. Viceversa se mi attengo soltanto alla ragione e alle regole da questa dettate andrà perduto lo spirito stesso dell’arte e dell’intuizione poetica che la sottende e la sospinge a cercarsi una forma espressiva intonata all’ispirazione.

In questa prospettiva la vita in parte partecipa del carattere del gioco, come la natura, l’arte, la riflessione e l’azione.

Dio stesso nella tradizione ebraica gioca con i mostri marini sulle superfici spumose dell’abissale oceano, dominando con la libertà sovrana e l’assoluta padronanza dell’essere l’elemento più imprevedibili e anche temuto nella cultura giudaica. Leggendo oltre le righe, questa immagine di un Dio che gioca con i più terribili mostri marini sulle onde dell’oceano, simbolo per gli ebrei del caos, del nulla e della distruzione, ha anche una valenza metaforica che allude al dominio divino su ogni angolo dell’universo, sulla luce ma anche sulla tenebra, sugli angeli ma anche sui demoni. Lui è ovunque, su tutto esercita la sua sovranità splendente e gloriosa, come cantano numerosi Salmi di lode e di ringraziamento.

Come metafora, il gioco è un modello molto amato dalla letteratura, perlomeno a partire dal Rinascimento con quel grande volo ludico e fantastico che è il poema “L’Orlando furioso” di Ludovico Ariosto (1474-1533). Non a caso, uno degli scrittori contemporanei più legati all’Ariosto è stato Italo Calvino (1923-1985) che nelle sue opere più mature ha letteralmente giocato con le forme narrative e con la scrittura. Trasformando il testo letterario in una sorta di raffinatissimo gioco da tavola produttore autonomo di senso, Calvino ha lasciato che le storie e le narrazioni più articolate e fantastiche scaturissero dall’intreccio delle regole di un gioco, come accade in “Se una notte d’inverno un viaggiatore” (1979) e in “Il castello dei destini incrociati” (1969). Soprattutto in quest’ultima opera, lo scrittore ha delegato al gioco delle carte dei tarocchi la funzione di costruire storie e di incrociarle sotto lo sguardo compiaciuto del narratore-giocatore. Divertendosi con le forme e lasciandole reagire come elementi di un esperimento di chimica di cui non si conosce il risultato, Calvino ha inaugurato una nuova fase della letteratura considerata come una sorta di congegno meraviglioso, di lampada magica. Basta che lo scrittore faccia girare la lampada e, senza che debba fare alcuno sforzo se non quello di descrivere ciò che vede, ecco sfilare sotto i suoi occhi le fantasmagorie e gli arabeschi più inaspettati. Sullo spartito di queste immagini scaturite da un gioco combinatorio lo scrittore è chiamato ad assemblarle via via che scaturiscono liberamente. La sua arte sarà un’arte formale, un ulteriore gioco di stili e di linguaggi, una tavolozza di colori a cui attingere per dare corpo e vividezza ai significati scaturiti dal gioco. L’artista si fa giocatore e l’arte diventa gioco. Il messaggio poi un’efflorescenza radiante che culla lo sguardo e l’ascolto. E il fine? Nessuno, come accade dopotutto in ogni gioco, se non il piacere di abbandonarsi a una libertà sganciata dai vincoli feriali del quotidiano.

Ma il gioco può essere anche un demone, che ti devasta e ti distrugge poco a poco, un vizio catalogato perfino come malattia da curare alla stregua di tutte le altre patologie organiche. Qui incappiamo in una pericolosa devianza che toglie la dimensione ludica dalla sua poesia e dalla sua bellezza ricreativa, per dirottarla nelle secche di un edonismo incontrollato. Desideri, pulsioni devianti, trasgressioni, tutta l’area che un tempo apparteneva alla casistica del vizio, diventano gioco e pretesto di una legittima pretesa di libertà e di appagamento. Tutta la vita può diventare un gioco inteso in questo senso, un gioco sfrenato se non idiota, come accade anche nei giochi in senso stretto che vanno per la maggiore, come le simulazioni virtuali di delitti, incidenti e altri misfatti sanguinosi tanto ricercati dagli adolescenti e non solo. In questa confusione tra gioco e realtà, che sta spostando sempre più in là il confine della nostra consapevolezza del bene e del male, anche la coscienza sprofonda in un assopimento virtuale in cui tutto appare lecito e possibile. Anche il declino del gioco come incursione piacevole e gratuita in un mondo altro rientra in un più ampio e capillare declino culturale e di costume.

Non dimentichiamo poi che il gioco — quello genuino sempre più raro — ha molti tratti in comune con la favola. Essa infatti ha la facoltà di rapire e trascinare la fantasia infantile in un universo meraviglioso e sorprendente, dove tutte le regole e i doveri della realtà, come le comuni leggi fisiche, sono sospesi. Non è così anche per le più alte e profonde aspirazioni dell’uomo adulto? Se il bambino ha la fiaba e il gioco per esprimere quell’impulso fondamentale per ogni persona ad andare oltre le cose ordinarie e opacamente materiali, l’adulto forse si dimenticherà delle favole e non avrà più tempo e disponibilità per il gioco, ma certo non dimenticherà quell’antico sogno di volare oltre i confini del visibile, di entrare in dimensioni meravigliose invisibili all’occhio. Il suo gioco allora, tra le fatiche e gli impegni di ogni giorno, sarà ancora quello di andare oltre, di spaziare con lo sguardo al di là dell’orizzonte, in attesa di una rivelazione magnifica, che tolga l’opaco velo delle cose e mantenga viva la speranza.

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