Mamme in gattabuia, delinquenti a piede libero




Poi uno dice che la realtà non supera la fantasia. Sentite qua e giudicate voi. Eugen e Luise Martens sono una famiglia di Eslohe, Renania Settentrionale, sposati e con figli, molti dei quali piccoli. Qualche giorno fa un poliziotto ha bussato alla porta della loro casa per notificare a lei, la signora Luise, intenta ad allattare l’ultimo bebè arrivato, un mandato d’arresto. Motivo? Una delle loro figlie, che adesso frequenta le elementari, ha rifiutato per due volte di partecipare ai corsi (obbligatori, secondo la nuova legge) di educazione sessuale. Ma va là, direte voi! E per una scemenza del genere uno finisce in gattabuia? Ebbene sì, cari miei, perché in Germania sapete com’è quando si fa sul serio…dura lex, sed lex. In realtà in prima istanza la famiglia era stata condannata a pagare una multa, ma siccome i coniugi Martens si rifiutano di pagarla, scaduti i termini (come si direbbe con l’asettico linguaggio burocratico), è scattata la misura carceraria. Che tra l’altro i due conoscono bene, perché il marito per lo stesso identico motivo era stato già arrestato (!) l’anno scorso. Quindi si tratterebbe del secondo arresto. Luise fin qui l’ha sempre scampata invece perché la volta scorsa era incinta e ora sta allattando. Come dire, la signora ha delle attenuanti. A scanso di sensazionalismi facili, va pure detto che la famiglia Martens non è la sola a trovarsi, diciamo così, in questa situazione kafkiana. A Paderborn, non lontano da Eslohe, stesso Land in cui si è svolta la vicenda, negli ultimi tempi sono state diverse le famiglie a trascorrere più di una notte in carcere. E la cosa è talmente diffusa che a Colonia già si è costituito un gruppo di genitori che intendono portare all’attenzione delle autorità civili e dell’opinione pubblica lo scandalo in corso: ‘Besorgte Eltern’, (ovvero “genitori preoccupati”). Ora, se non fosse realissima, la vicenda si adatterebbe benissimo a un romanzo surrealista o comunque di tono paradossale. Proprio kafkiano insomma. Ricordate come inizia Il Processo? Ecco più o meno siamo lì. Solo che non c’è niente da sorridere. Anzi, nella sua singolare tragicità, questa situazione fa solo piangere. Obbligare un bambino di sei anni a sentire e vedere pornografia a scuola (perché poi all’atto pratico di questo si tratta) trasformando il luogo pubblico dell’elevazione intellettuale e morale per eccellenza in un laboratorio sperimentale sulle anime è un’operazione talmente oscena che mancano le parole per descriverla. Di più, e come se non fosse già abbastanza: colpire con misure penali chi si oppone a questo esercitando un elementare diritto di pensiero e di espressione è semplicemente folle, di una follia neanche troppo velatamente criminale. Chiunque abbia un minimo sindacale di buon senso sentendo questa storia dai contorni incredibili e raccapriccianti parteggia all’istante per la mamma e la bambina. Chiunque. Non ci vuole uno scienziato per capirlo. Né servono discorsi di particolare dottrina giuridica.

Ma se è così – ed è evidentemente così – allora davanti al tribunale dell’opinione pubblica deve andarci necessariamente chi ha potuto mettere in atto un simile meccanismo perverso. Fuori dai denti: l’organizzazione dello Stato nel suo complesso. Prima nel campo legislativo, ovvero chi ha pensato e scritto la legge in questa maniera, poi nel campo giurisprudenziale, chi la fa applicare con rigorosa osservanza. A fronte di altre leggi vigenti, invece, sia detto per inciso, scritte e non scritte, che nessuno fa mai applicare, non si sa perché. Tutto questo, però, si capisce, è di una gravità inaudita. Perché significa allora che lo Stato e la Giustizia nei loro rispettivi vertici ufficiali e riconosciuti non sono più attendibili. Neanche la Scuola lo è più. Ma come potrà mai andare avanti una società in cui nessuna Istituzione del consesso civile viene più percepita dai cittadini come vicina, affidabile, di ‘garanzia’? Lungi dall’essere una questione interna a visioni culturali che oggi si frappongono quello che sta accadendo in Germania in queste settimane è quindi una vera e propria messa in discussione dell’intero patto di cittadinanza. Di ciò che cioè tiene quotidianamente insieme un popolo e che non può essere solo una Costituzione scritta una volta per sempre. Non si tratta allora di una battaglia confessionale, né di un confronto culturale semplicemente legato alle antropologie in conflitto della postmodernità. Da un certo punto di vista, anzi, magari fosse così. Vorrebbe dire che lo spazio pubblico sarebbe ancora libero tutto sommato, almeno in parte. Invece qui siamo già oltre. C’è un pensiero unico che piega a sé gli strumenti della democrazia pluralista e ne fa arma di persecuzione civile e penale, entrando in zone intime e privatissime dell’educazione e della libertà personale e familiare e bastonando in modo inaudito – in concreto, non in astratto – le  coscienze di chi pensa diversamente (alla faccia della tolleranza). Si ripete spesso quella frase attribuita a Voltaire (che in realtà poi storicamente non era sua, ma giusto per capirci): “non condivido ciò che dici, ma darò la mia vita perché tu possa dirlo”. Chissà che ne pensano in Renania. In ogni caso, di certo, visto il (positivo, per una volta) clamore mediatico suscitato da questa storia non finisce qui e se ne parlerà ancora per molto. Resta però tutto l’amaro in bocca per una storia allucinante che in Germania segna uno dei punti più bassi mai toccati nel rapporto tra potere, autorità e comunità dal Dopoguerra a oggi. Una storia che ha fatto molto male a molte persone, senza dimenticare i bambini – i veri perseguitati – e che, vista l’aria che tira, è ancora ben lungi dall’essere conclusa felicemente, anzitutto per la famiglia Martens. Una volta si diceva: c’è sempre un giudice a Berlino. Beh, se c’è veramente ora lo scopriremo presto. Aspettiamo fiduciosamente la prossima puntata.

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