Doveva essere l’ultima delle guerre. Dopo anni di dolori immensi, i popoli d’Europa si aspettavano una pace che cancellasse per sempre l’incubo di un nuovo conflitto.
E invece no. L’imprevista durata di una guerra che sembrava non dover mai finire, aveva portato alla radicalizzazione delle aspettative nelle pubbliche opinioni dei belligeranti. Per chi aveva patito la fame in patria o in prigionia, per chi aveva perduto parenti e amici o lasciato sul campo di battaglia pezzi del suo corpo, per chi non avrebbe mai dimenticato l’incubo della trincea, niente di meno di una vittoria totale poteva, forse, ripagare delle sofferenze subite. Ma le paci punitive di Parigi generarono tali nuovi squilibri da rendere fertile il terreno per le volontà di rivincita, pronte a trasformarsi in nuove ambizioni di dominio. E così la Grande guerra non fu la conclusione, ma solo il primo atto di un dramma destinato per trent’anni a consumare l’Europa fino a distruggerla ed appiccare il fuoco al mondo intero.
A comporre la grande illusione aveva contribuito potentemente l’affermarsi del principio dell’autodeterminazione dei popoli, lo stesso per il quale si erano combattute le rivoluzioni e i risorgimenti ottocenteschi. Purtroppo, quello dalla lotta di liberazione all’esercizio della libertà è sempre un passaggio delicato. Alla conferenza di pace di Parigi si scoprì che l’Europa centrale era troppo complessa per tracciarvi linee etniche inoppugnabili. Il principio nondimeno fu applicato a vantaggio dei vincitori e danno dei vinti, con il risultato che il cuore del continente si frammentò in gelosi “stati per la nazione”, sospettosi dei vicini e nei quali la presenza di minoranze etniche veniva percepita come un limite dalla nazione che lo stato aveva costruito solo per sé.
Accadde lo stesso anche nella Venezia Giulia. Grazie alla vittoria ottenuta nel nome di Trento e Trieste l’Italia concluse il suo processo di unificazione nazionale e al tempo stesso lo trasformò nel disegno di una “Grande Italia”. Neanche tre decenni dopo la politica fascista avrebbe creato le condizioni affinché quel risultato in buona parte si dissolvesse: ad ottenere quindi la propria unificazione nazionale furono allora sloveni e croati, che a loro volta la inserirono nel progetto di una “Grande Jugoslavia”.
Di per sé, la mobilità dei confini non doveva necessariamente condurre al dramma, se non fosse stato per i conflitti nazionali. Questi pre-esistevano, ma compirono un salto di qualità nel passaggio dall’impero asburgico agli stati successori: che furono nel primo dopoguerra quello degli italiani e nel secondo quello degli slavi del sud. Nel nuovo contesto post-bellico infatti, gli opposti patrioti non dovevano più fare i conti con le istituzioni di uno stato mediatore, se pur non sempre imparziale, ma potevano schierare dallo loro parte tutta la forza dello stato per schiacciare gli avversari. I risultati migliori – si fa per dire, si capisce – li ottenne non chi mostrò in tal senso maggiore impegno, ché questo purtroppo non fece difetto nei due dopoguerra, ma chi poté mettere in campo strutture e forme di presenza politica più adatte ad entrare nelle pieghe delle società minoritarie, stravolgendole e portandole al collasso. Detto in altre parole, il regime comunista di Tito fu più totalitario di quello fascista di Mussolini.
Alla guerra, naturalmente, doveva seguire la pace, ma tanto ovvio non fu. Anzi, il conflitto totale lasciò in eredità una brutalizzazione della lotta politica che nei territori già appartenenti agli imperi guglielmino, asburgico, zarista ed ottomano giunse spesso fino alla guerra civile. Da parte sua, l’Italia si rivelò stato anfibio: certamente vittoriosa ma poco convinta della portata della vittoria e soggetta quindi ad una crisi di transizione più simile a quella dei paesi vinti che non degli altri vincitori, tanto che alla fine sarebbe precipitata anch’essa nella guerra civile, perdendo la libertà.
Le aree di frontiera come la Venezia Giulia anticiparono nettamente le dinamiche del paramilitarismo, proprio per la loro contiguità alle esperienze estreme in atto più ad est. Difatti, già nel dicembre del 1918 squadre nazionaliste ispirate dai servizi segreti devastarono la curia di Trieste, alla ricerca di chissà quali documenti. Nel settembre del ’19 dalla regione partì la ribellione militare che condusse D’Annunzio a Fiume ed avrebbe dovuto innescare una marcia su Roma che poi non vi fu, regalando l’idea a Mussolini. Nel luglio del 1920 scesero in campo, in prima nazionale, le squadre fasciste, potendo esibire a loro gloria l’incendio del Narodni Dom, in linea con quell’ondata di semplificazione nazionale e culturale che in pochi decenni avrebbe distrutto la ricchezza dell’Europa di mezzo.
Nel centro del continente le spinte xenofobe avrebbero ben presto assunto espliciti connotati razziali. Sulle sponde adriatiche poterono nutrirsi del trionfo della “religione della patria”, in parte dichiaratamente alternativa a quella cristiana, in parte ad essa così abilmente frammischiata da confondere le coscienze. Cantore massimo ne fu Gabriele D’Annunzio, che della mistica della patria fu l’inventore, affascinando milioni di cuori anche devoti al Signore e le cui opere costituiscono una delle maggiori raccolte di bestemmie della storia della letteratura italiana: non perché vi manchino Dio o le preghiere, gli inni e le litanie, ma perché quella che vi si celebra con formule cristiane è la divinità cruenta della nazione, assetata di gloria e dominio, che incita alla lotta e nega ogni pietà.
La vittoria del 1918 comunque accese gli animi di chi da tempo invocava l’Italia e, sempre mutuando il linguaggio religioso, attendeva la prima redenzione. Il prezzo fu il blocco dello sviluppo. Già da anni del resto Trieste era dilaniata dal contrasto fra la vocazione nazionale, che in un’epoca d’intolleranti patriottismi spingeva gli italiani a cercar protezione dalla Madrepatria, e destino economico, che nella permanenza invece nella compagine asburgica vedeva l’unica speranza di durevole prosperità.
I nazionalisti immaginavano di risolvere il dilemma affidando all’Italia un ruolo imperiale che però il regno sabaudo non era affatto in grado di assumere, e il dopoguerra mostrò che chi pretendeva di ribaltare la realtà con le parole, si sbagliava. Una volta frammentatosi il retroterra, uno stato come quello italiano, la cui influenza si limitava alla costa, poco poteva fare per la città giuliana, se non accompagnarne dolcemente la decadenza. Le successive guerre novecentesche, vale a dire il secondo conflitto mondiale e la guerra fredda, non fecero che peggiorare la situazione. Solo oggi, un secolo dopo, l’ennesima ondata di globalizzazione sembra offrire all’ex porto dell’impero qualche spiraglio per costruirsi un nuovo ruolo emporiale. Resta da vedere se saprà e vorrà cogliere l’occasione.
Per quanto dura, la lezione della Grande non fu subito ben compresa dai popoli d’Europa, tant’è che dopo neanche una generazione si ritrovarono daccapo in guerra fra loro. Questa volta, l’impatto combinato dei due traumi a così breve distanza sembrò funzionare, anche perché agli europei non era rimasto praticamente più nulla da tirarsi in testa. Ne venne una spinta poderosa all’unificazione, che ha consentito di superare contrasti tradizionalmente definiti come “storici”. Con il tempo però la spinta si è largamente esaurita e la memoria delle buone ragioni si è offuscata, sommersa dalla burocratizzazione e dall’incapacità delle classi dirigenti nazionali di proporre l’integrazione sul piano della politica e non solo delle convenienze economiche.
Capita spesso che chi non sa andare avanti, torni indietro. Molti speravano che il centenario della conclusione del grande massacro sarebbe stata celebrata in un Vecchio continente finalmente unito. Beh, diciamo che è rimandata.
NON SOLO UNA VOLTA ALL’ANNO
Puntualmente ogni inizio dell’anno ci si augura pace, sperando non sia solo un auspicio ma un desiderio...
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